Pas: la rigetta la Cassazione, la racconta il cinema

In Cinema, Weekend

La corte di Cassazione interviene sulla sindrome di alienazione parentale, spesso invocata nei procedimenti di separazione e affidamento dei figli, giudicandola scientificamente infondata. Al cinema la storia dell’irlandese Sandra che combatte in tribunale e fuori per le sue figlie e per costruire una casa e una vita finalmente libera dalla violenza e dalla sudditanza psicologica al marito

La Cassazione italiana, in una recente e importante ordinanza, si è occupata della sindrome da alienazione parentale (PAS), teoria molto controversa che descriverebbe la condizione psicologica di minori che hanno rifiutato la relazione con uno dei due genitori come conseguenza dell’incitamento portato avanti dall’altro. La PAS è spesso invocata dai padri nelle cause di separazione e affidamento dei figli, ma la Cassazione l’ha giudicata infondata con motivazioni molto nette. Nel caso specifico, una perizia sosteneva che la condotta materna fosse «finalizzata alla estraneazione della minore dal padre e all’allontanamento da quest’ultimo». E ciò avveniva per opera di una “madre malevola”, definizione che riguarderebbe le donne che mettono in pratica una serie di azioni e comportamenti volti a danneggiare la figura paterna agli occhi dei figli. La Cassazione ha annullato la sentenza rinviando il caso alla Corte d’appello di Brescia, stabilendo che la “sindrome della madre malevola”, riconducibile alla PAS, non ha alcuna validità scientifica ed evoca la cosiddetta “colpa per il modo d’essere”, concezione sviluppata negli anni ’40 nel modello penale nazista, basata sull’idea che debba essere punito non tanto un fatto commesso, ma il modo d’essere di chi l’ha compiuto.

Di questo tema, e di violenza domestica, tratta La vita che verrà – adesso in sala – di Phyllida Lloyd, regista di cinema e teatro inglese che ha firmato il blockbuster Mamma mia! e ha fatto vincere il suo terzo Oscar nel 2012 a Meryl Streep per The Iron Lady, biografia a suo modo eccentrica di Margaret Thatcher. La protagonista Sandra, interpretata da Clare Dunne, che il film l’ha anche scritto e mostra un palpabile, assai credibile coinvolgimento nel personaggio, se ne va di casa, con le sue bambine, dopo l’ennesimo pestaggio subito dal “suo” (così lo chiamerà a lungo nel film) Gary, che le procura la frattura del polso della mano sinistra. Lui la prende a calci e pugni, le tira i capelli, la butta a terra, ma nonostante l’ovvio affido alla madre delle due figlie in tenera età, continua a poterle legalmente vedere nei weekend. Finché Molly, la più piccola, che ha assistito all’ultima terribile scena di violenza del padre, si rifiuta perché lui le fa paura, e pur di non andare a trovarlo si chiude nell’armadio.

Portata in tribunale dall’uomo che pure ha amato, perché per otto volte la piccola si è rifiutata di incontrarlo, Sandra riuscirà a evitare di perdere l’affido grazie a una giudice prima decisa a far rispettar il diritto dell’uomo di incontrare entrambe le figlie, poi convinta a confermare l’assegnazione delle bambine alla madre della terribile condizione psicologica della piccola di fronte a quell’uomo violento che è suo padre. Il film racconta poi, in parallelo, la festosa, anche se assai travagliata, costruzione di una piccola casa che Sandra e un gruppo di suoi amici stanno realizzando nel giardino di una amica della madre, Peggy (Harriet Walter, forse la figura più attiva e positiva del racconto), seguendo un tutorial di internet, e in generale il difficile processo di affrancamento psicologico della donna da una relazione tossica che era nata con sprazzi di amore.

Il contesto del racconto, ambientato a Dublino, è quello delle classi proletarie del mondo contemporaneo, per le quali la vita è decisamente una strada sempre in salita. E uno dei personaggi principali ricorda che heavy methal, con l’h, è un termine irlandese a doppio senso, diviso col linguaggio musicale, che indica quel profondo senso di comunità che spinge le persone ad aiutarsi a vicenda. Nel film la tensione è sempre alta, il pericolo causato da una figura incombente e fuori controllo resta in agguato, ma Herself  (questo il titolo originale), soprattutto dopo il benefico incontro tra Sandra e Peggy, punta tutto sull’idea di costruzione: di una nuova casa, di una nuova vita, di una identità finalmente libera dal passato. Una casa solida fin dalle fondamenta, realizzata con un lavoro di squadra in cui tutti prestano la propria opera senza per forza avere qualcosa in cambio. Una piccola magione in mezzo al verde pronta ad accogliere una famiglia al femminile che alla fine anche il tribunale autorizzerà. Piccola come è il film, senza star di richiamo nel cast, ma capace di raccontare molto bene drammi reali e quotidiani evitando compiacimenti. E con una solida presa di coscienza che non ha nulla di retorico e stucchevole perché nasce dalla vita reale.



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