È una visione affascinante e piena di possibili interpretazioni, quella proposta dalla Fondazione Carriero di Milano con la bella mostra di Pino Pascali (1935-1968), uno dei più interessanti e mitologici artisti della seconda metà del novecento, italiano e non solo, che in soli tre anni di attività ha influenzato come pochi altri i suoi contemporanei e le generazioni successive.
Pascali sciamano, a cura di Francesco Stocchi, è una mostra carica di suggestioni ed evocazioni che da sempre rimbalzano nella psiche collettiva, per dirla con Jung, nonostante gli innumerevoli e spesso crudeli tentativi di distruzione, nel corso dei secoli e a ogni latitudine, del concetto stesso di sciamanesimo. Dall’apparentemente innocuo e bonario Babbo Natale – con il suo correlato di renne volanti, sonagli e albero decorato, tutti attributi tradizionali degli sciamani – fino ai manga e al genere fantasy, passando per favole, cartoni animati e videogiochi, mega concerti, rave party e rituali collettivi d’ogni genere, il bisogno primario e primitivo di mediazione tra mondi visibili e invisibili non si è mai veramente sopito. È quindi forse in parte riduttiva, benché affine ai gusti dell’artista quand’era in vita, l’identificazione della figura dello sciamano con la cultura africana, qui rappresentata attraverso la volutamente sovraccarica raccolta di sculture, maschere e oggetti rituali e quotidiani che affollano, senza invaderli, gli spazi di Casa Parravicini, la splendida palazzina ristrutturata da Gae Aulenti che ospita la Fondazione.
La figura dello sciamano, a partire dall’origine siberiana della parola che tra l’altro significa “colui che vede”, è infatti un fenomeno trans-culturale, che dalle steppe gelate arriva all’estremo nord americano, passa per il Sud America, l’Australia, la Cina e non dimentica l’Europa, con gli sciamani lapponi e le streghe del beneventano. Ovunque e sempre le società umane hanno avuto bisogno di chi le accompagnasse nel mondo dei morti e che parlasse con le forze della natura, fossero queste malattie o animali della foresta. Un fenomeno ben più variegato e complesso rispetto all’idea un po’ cupa e stereotipata che aleggia nel pensiero comune, quando indugia sulle banalizzazioni new-age.
È sciamano il bimbo che gioca e il matto che danza, il clown che muore e rinasce di continuo ed è sciamano, anche e soprattutto, l’Artista. Non certo chi dello sciamano vero scimmiotta abiti, gesti e atteggiamento, bensì chi è in grado di svolgere la sua funzione atavica e poderosa di svelamento. Allora le funzioni magiche e creative si sovrappongono, come succede fin da quando mani sapienti tracciavano sagome di prede e cacciatori sulle pareti delle caverne, alla luce fioca e traballante dei fuochi accesi. Quella stessa caverna in cui Platone incatena metaforicamente l’umanità, immobile a confondere echi e ombre con la realtà, e da cui chi riesce a rompere le catene per vedere il mondo di fuori – com’è nell’etimo dello sciamano – e a tornare, uomo nuovo, a liberare i suoi, non può che pagare con la vita la tracotanza di voler tradire il segreto degli spiriti superiori. La stessa caverna in cui cade Alice e in cui si infila Orfeo nell’inutile tentivo di riportare nel mondo dei vivi la sua bella.
L’artista è dunque sciamano, perché vede dove gli altri non vedono, tramite e mediatore inascoltato tra illusione e realtà, colui che, parafrasando Montale, se ne va zitto tra gli uomini che non si voltano, col suo segreto. Ma non basta questa visione per definire un personaggio così intrigante come Pino Pascali.
La figura dello sciamano è carica di una tensione e di un tetro timore che poco assomigliano al nostro spiritello mediterraneo, uomo legato alla terra e alla sua energia ma anche eterno fanciullo, spirito ludico, selvaggio e anarchico. Più ancora che lo sciamano, il personaggio che meglio si addice a Pascali è forse il trickster, il buffone divino che è coyote, Arlecchino e Mercurio. Il trickster è l’ingannatore, e già questo, se accettiamo con Pessoa che “il poeta è un fingitore”, ci avvicina al cuore caldo della questione. Ed è amorale, ma nel senso che infrange le regole e le ridefinisce, sbeffeggiandole. E poi è necessità, gioco, soddisfazione non solo edonistica, capacità di rovesciamento. Deus ex machina che sovverte a buon fine le situazioni più ingarbugliate. E dunque, infine, è pensiero divergente ed euristico, creatività pura, esplosiva, bastante a se stessa e donata al mondo.
Questo è il Pino Pascali che riusciamo a leggere in questa mostra. Bambino che gioca in spiaggia, giovane atletico che, con l’aria di chi è appena tornato da Woodstock, diventa sacerdote rituale, taglia la sabbia con una sega da legno, delimita il terreno con paletti di legno e vi impianta filoni di pane di cui poi si nutre, come lo vediamo nell’incredibile ed emozionante video tratto da SMKP2, film del 1968 di Luca Maria Patella.
Pascali sacrifica orsi di peluches e decapita cervi di tela bianca, prende le forme della natura e le trasforma in essenza assoluta, con una tecnica che i debiti con il pop americano ha subito ben più che ripagato. Serpenti, pellicani, scogli e canneti di bambù vibrano monocromi, mentre citazioni più dirette alle culture primitive ne perpetuano la potenza e l’archetipicità prima ancora che l’estetica, attraverso l’uso magico dei materiali che lo circondano nel momento in cui l’estasi (altro etimo possibile di sciamano) lo assale. Per questo il debito con il pop può considerarsi assolto. Il pelo sintetico, la lana d’acciaio con cui son costruiti i cesti e le liane che penzolano dal soffitto, gli scovoli industriali dai colori indifferenti al gusto: sono oggetti che in Pascali non citano loro stessi in quanto prodotti industriali con annessi e connessi, bensì sono “arte povera” nel senso reale del termine, oggetti che ci circondano e con cui si può costruire un discorso in uno stato di sospensione di giudizio. I “Cinque bachi da setola e un bozzolo”, che invadono (in senso propriamente alieno) il neo-settecentesco salone decorato dell’ultimo piano, non sono fatti della materia di cui sono composti ma del potere magico che li ha dotati di anima vivente, sospesi in un’eterno ondeggiare.
Pascali parlava alle cose e agli animali, magici aiutanti che lo condussero lungo la strada delle sue avventure. Ma uno sciamano, per essere tale, deve morire e rinascere, e Pascali, alla stessa età del suo più famoso collega biondo, a trentatre anni soltanto ci ha lasciati, smembrando il suo corpo, come da tradizione, in un urto feroce mentre volava sul suo magico cavallo meccanico. Il viaggio iniziatico, leggende alla mano, può essere molto lungo, faticoso e doloroso, ma alla fine il prescelto si ricompone ed è altro da sé, pronto a portare il suo sguardo rinnovato al servizio di noi poveri accecati. Il suo spirito aleggia tra le opere, tra le pagine dei suoi taccuini pieni di onde del mare e funghi magici, si nasconde dietro le maschere dei Dogon del Mali, si palesa nelle grandi foto di corna e di mantelli. Pascali è ancora qui, più vivo e sarcastico che mai. Aspettiamci, prima o poi, di vederlo tornare.
Immagine di copertina: Pino Pascali, Cinque bachi da setola e un bozzolo.