Per le vie (e i caratteri) di Milano in compagnia di Hemingway, Einstein, Ottieri e Stendhal: si sono fatti trovare chi alla Scala, chi in stazione…
Nel neonato anno dell’ Expo milanese, accantoniamo qui l’Expo, ma non Milano. Anzi, torniamo al centro della nostra città con un’antica, ma non ancora frusta, osservazione. Questa: da circa 500 anni, Milano ha smesso di essere capitale di uno Stato, stimolando però in una fila di disparati visitatori un carattere, o una pulsione, in qualche modo “centrale”. Come se le sensazioni intra moenia di tutte queste persone fossero anche capaci di un salto a suo modo prodigioso: trasformare un luogo comune (la città del Duomo, del lavoro, di Brera e del Cenacolo, della Galleria, di un po’ di borghesi illuminati, delle donne meglio vestite sia alla Scala che con l’impermeabile, etc.) in qualcosa di irripetibile. Lì, cioè qui, “alla milanese”. Certe impressioni – celebri, poetiche, o acute, o immaginifiche – possono allora diventare una bella sceneggiatura da ripasso cittadino: lontana, lontanissima dalla sciagura della “Milano da bere”, o padanizzata, o camuffata, non troppo tempo fa, da dépendance di Arcore-Macherio. Le voci scelte di questo testo brevissimamente messo insieme sono quelle di Ernest Hemingway, Albert Einstein, Ottiero Ottieri, e naturalmente Stendhal: partendo da lui, fanno due secoli, con un surplus di Novecento.
A parte Einstein (che peraltro sapeva benissimo come riflettere anche per iscritto), sono tutti scrittori: con stile e poetica lontani anni luce gli uni dagli altri. Immaginandoli come un insieme extraturistico (cioè non intruppato), proviamo ad ascoltarli, localizzandoli, quando vogliono farsi trovare. Stendhal è dentro la Scala, nel 1816, e uscendo da un palco, osserva: «Mi hanno presentato una donna alta e ben fatta, che mi è sembrata sui 32 anni. E’ ancora bella, e di quel genere di bellezza che non si trova mai a nord delle Alpi. Tutto, attorno a lei, annuncia l’opulenza e scorgo nei suoi occhi una spiccata malinconia». A modo suo, e amando molto le donne, il più geniale milanese d’adozione dell’Ottocento centra in una signora scaligera un cliché che, almeno un tempo, era vero: l’incrocio fra la ricchezza del contesto e la bellezza malinconica del sottotono.
Con Hemingway, un secolo dopo, passiamo in piazza del Duomo. Con la nebbia. L’americano parla della città attraverso Addio alle armi e a quello che aveva appena passato: un ragazzo di 19 anni, dell’Illinois, sul fronte del Piave, combattente insieme agli alleati italiani, poi ferito da 227 schegge alle gambe, e quindi ricoverato all’Ospedale della Croce Rossa, e poi all’Ospedale Maggiore (la Ca’ Granda). Si sarebbe innamorato di un’infermiera, sarebbe stato rispedito a combattere sulla linea di Vittorio Veneto, e sarebbe ritornato a Milano a curarsi di un’itterizia contratta in trincea. Molte tappe in città –poveraccio- ma anche la scrittura di Addio alle armi, dopo. Dove lui, innamorato di Catherine (nome letterario dell’infermiera che si chiamava in realtà Agnés), racconta: «Prendemmo insieme la piccola traversa delle fiaschetterie e arrivammo al Mercato e poi ai Portici e alla Piazza del Duomo (…) Nella piazza la nebbia era densa, la cattedrale pareva enorme sotto la facciata, ed era umida veramente la sua pietra (…). Nell’ombra tra i pilastri un soldato era fermo con la sua ragazza. Passammo loro vicino. Erano stretti insieme contro la pietra, avvolti nel mantello di lui. ‘Sono come noi’, dissi. ‘Nessuno è come noi’, disse Catherine. Senza contentezza nella voce. ‘Vorrei che avessero una stanza’. ‘Non ne hanno bisogno’. ‘Forse tutti ne hanno bisogno’. ‘Loro hanno il Duomo’, disse Catherine». Hemingway a Milano è stato anche questo: il Duomo che diventa, fuori, la stanza di due amanti. Con la voce di una ragazza americana che dice, triste e nella nebbia, nessuno è come noi”.
Non lontano dalla cattedrale, in via Bigli (nell’ex palazzo di Clarina Maffei), si è installato il giovane Albert Einstein, tedesco di Ulm, in Baviera, perché il padre aveva messo in piedi una piccola azienda elettrotecnica in Lombardia. Nella città già iperindustriale, Albert non fa che lavorare, ma per dirlo, e per confessare le sue prime intuizioni, scrive lettere d’amore alla sua fidanzata Doxerl (cioè Mileva, che diventerà la prima moglie di un matrimonio non felice): «Mia cara, tenera, Doxerl, qui ho studiato moltissimo e ho completato le mie riflessioni sulle leggi fondamentali della termoelettricità». Poche righe, e un certo blasone – casuale fin che si vuole – per la città e il suo centro di via Bigli: veder nascere li’ quelle riflessioni, dalla testa e dallo studio di quell’uomo.
Un diverso tipo di volontà anima Ottiero Ottieri – di antica famiglia tosco romana – il 2 febbraio 1947. Siamo alla Stazione centrale, dove lui sbarca, per la prima volta, a 23 anni. Che cosa vuole da Milano? Questo: «Sono un intellettuale di sinistra, sono venuto per esserlo, come uno che va a frequentare una scuola in un’altra città. Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere». Rimarrà se stesso tutta la vita, abitando quasi continuamente a Milano, in via San Primo. Un po’ marziano rispetto alla città, e molto diagnostico di quello che poteva essere il dernier cri di una metastasi sociale: «Oggi è una città in cui regnano degli imprenditori tirannici, narcisi, la cui caratteristica è di portare alle stelle come se fosse un valore etico l’unico valore di cui Milano è portabandiera, che è il denaro. Questo valore denaro ha fatto fuori, ha ridicolizzato tutti gli altri valori, compreso il valore degli uomini di cultura».
Quasi due secoli prima, il “milanese” Stendhal, che aveva anche l’acume di frequentare un po’ di tutto, classificherà in questi termini: «Negli uomini, come fra le donne, i tratti del carattere si dispiegano qui in tutta libertà; c’è un maggior numero di geni e di sciocchi. Gli imbecilli lo sono a un livello incredibile, e vi sorprendono in ogni momento con delle uscite che bisognerebbe far constatare dai testimoni, se le si volesse raccontare».
La sceneggiatura, brevissima, può chiudere con queste parole. Aggiornabili, scegliendo le “uscite”, e facendo da testimoni.
Foto di Lorenzoclick