Aperte, amare, intelligenti, sarcastiche ma pur sempre risate. È Natale, e la nostra rubrica sulle serie tv vi offre una pausa di leggerezza. Divano, copertina post prandiale, i nostri consigli di visione e molti auguri a chi ci legge
Una poltrona per due è una certezza: ogni anno a Natale riesce a mettere di buon umore anche il più verde e malmostoso dei Grinch. Però magari non avete voglia di rivedere il pur pregevole film di Landis per la centesima volta. Che fare, allora? Io andrei a caccia di serie! Fra una piattaforma e l’altra la scelta è pressoché infinita.
Ecco qualche consiglio ragionato, fra novità e ripescaggi d’autore, per farsi due risate sotto l’albero fra Natale e Capodanno.
Fra i grandi ritorni si impone Boris, italianissima ed esilarante. La quarta stagione è appena arrivata su Disney+ e continua a divertire, anche se non c’è più Mattia Torre e la formula ha perso un po’ della freschezza degli inizi. Ma il dietro le quinte di una tipica fiction italiana – fra stagisti schiavizzati e attori irrimediabilmente cani, produttori cialtroni e registi che avrebbero velleità artistiche ma tengono famiglia – rimane godibile, grottesco e parecchio spassoso. Il cast fa il resto. Francesco Pannofino, Caterina Guzzanti, Pietro Sermonti, Ninì Bruschetta, Antonio Catania, Carolina Crescentini, Alessandro Tiberi e Boris, il pesce rosso: basta vederli spuntare sullo schermo per scoppiare a ridere.
È arrivata alla quarta stagione, già qualche mese fa, anche La Fantastica Signora Maisel (Prime Video) ovvero una delle serie a mio parere più divertenti di sempre. Merito di Midge (la strepitosa Rachel Brosnahan), casalinga disperata nella Manhattan degli anni Cinquanta che si improvvisa stand-up comedian e ribalta (decisamente in meglio) la sua vita. Le prime tre stagioni sono irresistibili, senza se e senza ma. Arrivati alla quarta stagione protagonisti e spettatori cominciano a essere stanchi, è vero, un certo grado di ripetizione è inevitabile, succede sempre con la serialità lunga. Però con la signora Maisel si continua a ridere e a sorridere; e, nella prima puntata della quarta stagione, il dialogo a più voci sulla ruota panoramica di Coney Island rimane un pezzo di grande cinema.
Ironia, leggerezza e intelligenza, come prezioso antidoto all’inevitabile malinconia natalizia, sono gli ingredienti principali anche di un’altra serie imperdibile: Il metodo Kominsky (Netflix), un capolavoro di scrittura, acuminato e sorridente, cinico e sentimentale, disperato e consolante. Un magnifico ossimoro. Con Michael Douglas (ex star di Hollywood che ha messo in piedi una scuola di recitazione) e Alan Arkin (produttore cinico, vedovo e ricchissimo) magnifica coppia di amici e complici, alle prese con i misteri della vita e della morte, sempre con un sorriso sulle labbra e una risata in tasca.
Simile ma non troppo, evidentemente rivolta a un pubblico affine, almeno per età, comunque ampiamente consigliabile anche Grace and Frankie (Netflix) con Jane Fonda (elegantissima e un pizzico rigida) e Lily Tomlin (tanto rilassata e un po’ hippie). Le due donne si conoscono da una vita ma non sono mai state amiche, lo diventano il giorno in cui scoprono che i loro rispettivi mariti, anzi ex-mariti, sono in realtà amanti e non solo soci d’affari. Una situation comedy che in realtà ha un po’ il fiato corto, e non riesce ad andare al di là del simpatico (ma prevedibilissimo) ping-pong fra due caratteri agli antipodi e due opposte visioni del mondo. Le prime due stagioni sono divertenti, le altre cinque molto meno.
Molto più originale e trascinante Russian Doll (Netflix) con la magnifica Natasha Lyonne alle prese con un loop temporale inquietante e al tempo stesso esilarante, in virtù del quale si ritrova a morire e a rinascere in continuazione, rivivendo fino allo sfinimento il giorno del suo 36esimo compleanno. Una serie in bilico fra dramma e commedia, che riesce a commuovere e un istante dopo farti sganasciare dalle risate. Un risultato tutt’altro che banale. L’ho amata alla follia la prima stagione di Russian Doll. Ho camminato con Nadia Vulvokov, alias Natasha Lyonne, per le strade di New York. Ho sognato con lei, sofferto con lei, lottato con lei, sperato con lei in un’impossibile redenzione. E la conclusione della prima stagione mi era sembrata perfetta, toccante, rassicurante persino. Ma no, hanno dovuto ricominciare con una seconda stagione! E io la amo davvero Natasha Lyonne (brava, più che brava, bravissima!), quindi ho iniziato a vederla. Però mi sono resa un po’ infelice, trascinandomi tra una puntata e l’altra, dalla New York del 1982 alla Budapest del 1944, alla Berlino del 1961, e a ogni giro di sliding doors ci si intristisce un po’ di più. Nadia è un gran bel personaggio, ma il senso delle cose, e del racconto, non lo si può dilatare all’infinito. E la seconda stagione è un pastrocchio storico-psicoanalitico che si prende troppo sul serio e finisce con l’essere assai indigesto. Insomma, un personaggio meraviglioso, ma che forse non ha più niente da dire.
A proposito di illusioni e delusioni seriali, merita una segnalazione Upload (Prime Video), gustosa esplorazione di un aldilà digitale dove si può “caricare” la propria coscienza un attimo prima di morire, e così conquistarsi il diritto alla vita eterna. Inutile dire che anche l’immortalità è più piacevole disponendo di mezzi finanziari adeguati! La prima stagione è divertentissima, surreale e intelligente. Poi, nella seconda stagione, gli autori sembrano aver cambiato idea. Sembrano aver deciso che far ridere non è cosa buona e giusta, e bisogna prendersi drammaticamente sul serio, e preoccuparsi della possibile, plausibile, forse imminente fine del mondo (dando voce alle deliranti motivazioni di una comunità di luddisti terroristi). Il risultato qual è? Una noia sconfinata. Ciao ciao, Upload, a mai più rivederci!
Il passaggio dalla prima alla seconda stagione è sempre pericoloso: succede anche ad Afterlife, magnifica serie Netflix con Ricky Gervais nei panni di un vedovo inconsolabile, cinico e francamente insopportabile, chiuso dentro i confini di un paesino inglese eppure capace di raccontare frustrazioni e speranze di tutti noi. Nelle prime sei puntate Afterlife brilla come una stella cometa pronta a indicare il cammino a tutti gli autori di fiction seriale: il ritmo è indiavolato, il mix di commozione e sarcasmo è semplicemente perfetto, tutto funziona e trascina, anche quando la scivolata buonista è in agguato. Poi arriva la seconda stagione, e la palpebra cala inesorabile, come una ghigliottina.
Rimaniamo in Europa, in Francia, per la precisione, con Irma Vep. C’era una volta un regista francese che aveva sposato un’attrice cinese e insieme avevano fatto un film su Irma Vep, remake di una serie francese su una vamp che guidava una banda di rapinatori mascherati. Una serie del 1915, I Vampiri, dieci episodi diretti da Louis Feuillade. Sì, 1915, avete letto bene, le serie non sono state inventate da Netflix. Il regista francese era Olivier Assayas, Maggie Cheung sua moglie. Era il 1996. E personalmente ho il ricordo di un film delizioso. Sono passati 26 anni. Assayas non è più sposato con Maggie ma per qualche motivo la storia di Irma Vep se l’è legata al dito. Non la vuole lasciare andare. E infatti cosa fa? Gira per la HBO (in Italia la trovate su Sky/Now Tv) una miniserie in 8 puntate, protagonista René Vidal (alias Olivier Assayas), regista ossessionato dal serial di Feuillade, da cui ha già una volta tratto ispirazione per un film interpretato dall’attrice cinese che allora era sua moglie. Ora Vidal vuole rifare I Vampiri affidando il ruolo iconico (è una parola che non uso mai, datemene atto, ma qui non si può farne a meno) che fu di Musidora a una giovane attrice diventata famosa grazie ai film di supereroi della Marvel, e ora in cerca di nuova verginità artistica in Europa. Vi sono venute le vertigini? Bene, obiettivo raggiunto. Direi che questa miniserie ultra-meta-cinematografica su piccolo schermo — che difende le ragioni del cinema come arte piegandosi alle regole della TV commerciali — sembra proprio un bell’esempio della complessità del reale e di come funziona (quando funziona) la magia del cinema. È una serie entusiasmante, surreale, ironica, a tratti spassosa. Consigliatissima.
Quanto alla riflessione finale sul destino del cinema, prima di tirare qualunque conclusione vi consiglio di vedere BoJack Horseman (sempre su Netflix). Amarissima ed esilarante, la serie animata creata da Raphael Bob-Waksberg racconta la vita di una stella di Hollywood ormai in decadenza, un individuo (che ha le fattezze di un cavallo) fragile, insopportabile e cinico, e magnificamente umano. La satira dell’industria cinematografica è talmente acuminata da non lasciare scampo a nessun personaggio, ma fra una puntata e l’altra, fra una risata e l’altra, c’è spazio per commuoversi e pensare, e soprattutto guardarsi allo specchio con un crescente senso di inquietudine. Una delle serie più divertenti di sempre, BoJack Horseman, ma anche un racconto profondo, sensibile e variegato, una ricerca del tempo perduto costellata di tentativi ed errori, a caccia di un’impossibile salvezza. Sei stagioni, per un totale di 77 episodi. E nemmeno una puntata che si riveli superflua!