Al debutto la nostra nuova rubrica dedicata alla serialità: le imperdibili, le deludenti, i temi, i personaggi, le novità e ripescaggi. Qui il racconto del binomio donne/potere in una cavalcata tra ‘The Crown’, ‘Il trono di spade’, ‘Borgen e molte altre
La quinta stagione di The Crown, appena arrivata su Netflix, si apre con una sorta di maldestro tentativo di golpe da parte del principe Carlo, l’erede al trono. È il 1991 e il principe di Galles ancora tenta di fingere un’improbabile felicità coniugale con lady Diana e i figli, a bordo di uno yacht che scivola fra la costiera amalfitana e la Sardegna. Intanto cerca di convincere il primo ministro, il conservatore John Major, ad appoggiare la convinzione che sembra diffusa in gran parte del popolo inglese – almeno stando ai risultati di un compiacente sondaggio di opinioni – che la vecchia regina (in realtà solo 65enne) dovrebbe farsi da parte, abdicare, in modo da consentire al giovane Carlo (all’epoca già 43enne) di ascendere al trono.
Sappiano benissimo come è andata a finire, con Lilibet che ha saputo tenere saldamente in mano scettro e corona per altri 30 anni – la regina è morta l’8 settembre di quest’anno e Carlo ha dovuto aspettare di arrivare a 74 anni per sedersi finalmente sul trono. Insomma, esausto alla meta, è il minimo che si possa dire.
In questa quinta stagione Carlo ha il volto di Dominic West, scelta che appare un po’ bizzarra perché l’attore inglese, diventato famoso nei panni del detective Jimmy McNulty (protagonista di The Wire, una delle serie migliori di sempre), è decisamente troppo bello e fascinoso nel ruolo dello smanioso aspirante re nonché marito fedifrago. Ben più azzeccata la scelta dell’immenso Jonathan Pryce per interpretare il principe Filippo, mentre vedere Imelda Staunton, attrice stupenda, come regina Elisabetta lascia piuttosto perplessi – dopo Olivia Colman è un po’ difficile affezionarsi a un altro volto, a una diversa fisicità. Ma non importa, non sono gli attori il punto debole di questa serie straordinaria, che ha saputo fondere realtà e finzione, mantenendo negli anni standard produttivi semplicemente fuori scala. No, qui il problema è che la quinta stagione si avvicina pericolosamente alla contemporaneità proprio nel momento in cui la Gran Bretagna si ferma, come paralizzata, per giorni e giorni, per stringersi intorno al feretro della sua regina e accompagnarlo alla sua ultima dimora.
Pochi giorni dopo il royal funeral in mondovisione, assistere al dietro le quinte della famiglia reale proprio durante quell’annus horribilis, come la stessa sovrana lo definirà – quel 1992 scandito dai divorzi di tre figli su quattro, e dal devastante incendio del castello di Windsor – ha il sapore un po’ sgradevole di sbirciare dal buco della serratura, assistendo a una quantità di aneddoti meschini, talora superflui, ogni tanto semplicemente di cattivo gusto.
Il pur bravissimo Peter Morgan, creatore e principale sceneggiatore della serie, sembra un po’ smarrire la bussola, perdendo di vista il nocciolo vero di una rappresentazione della Storia che si serve di una fitta serie di storie individuali. A un certo punto Andrea, duca di York, dice alla madre Elisabetta, a proposito della sua quasi ex moglie Sarah Ferguson: «La nostra famiglia fa questo. Distrugge chi è diverso. Non subito, ovviamente. Prima ci diciamo che saranno la nostra salvezza, la nostra arma segreta. Che ci faranno sembrare più moderni, più normali, più umani. E ogni volta impariamo la stessa, dolorosa lezione: che nessuno con carattere, originalità, entusiasmo, verve e luce propria può avere un posto in questo sistema».
Ecco, il senso profondo di The Crown, il motivo vero per cui è una serie imperdibile è proprio questo: la capacità di descrivere il potere monarchico come un moloch a cui tutto deve essere sacrificato, un sistema feroce, logorante come il tempo che passa, un sistema che invecchia i corpi e travolge gli individui, ma in qualche modo si autopreserva. Sempre.
Ma quando il potere non arriva per diritto di nascita, quando deve essere conquistato partecipando al gioco democratico delle elezioni, che cosa succede invece?
Un assaggio lo si trova nella quarta stagione di The Crown, quando Margaret Thatcher (una strepitosa Gillian Anderson), prima donna Primo ministro nella storia della Gran Bretagna, viene invitata nel castello di Balmoral e di fatto umiliata, vista la sua evidente incapacità di adattarsi al luogo e alla situazione (lei, borghesuccia con le scarpette coi tacchi e il tailleur blu), per partecipare felicemente alle battute di caccia nella brughiera, da secoli il passatempo principale della famiglia reale.
Ma tre anni dopo sarà la Thatcher ad avere l’ultima parola, quando si tratterà di decidere se mandare a morire dei soldati inglesi dall’altra parte del globo, pur di riconquistare le isole Falkland. Una scelta discutibile, ma che fruttò alla Lady di Ferro un vero e proprio trionfo alle elezioni, contro ogni pronostico. Figlia di un droghiere di Grantham, Lincolnshire, regnò di fatto sulla Gran Bretagna dal 1979 al 1990, e a proposito del potere e di come esercitarlo aveva le idee piuttosto chiare: «Essere potenti è come essere una signora. Se hai bisogno di dimostrarlo vuol dire che non lo sei.»
Ma il potere declinato al femminile nelle serie tv non è certo raccontato solo a partire dalla Storia. I personaggi d’invenzione sono tanti, sempre più presenti, sempre più forti. In alcuni casi destinati a conquistare saldamente un posto all’interno del nostro immaginario collettivo. È il caso di Daenerys Targaryen (Emilia Clarke), la Madre dei Draghi, indimenticabile figura tragica capace di esercitare il più folle dispotismo in nome del bene (presunto) dell’umanità intera. Da un certo punto in poi, nella foltissima schiera di personaggi in lotta per il potere che popolano le otto stagioni de Il trono di spade, è lei a prendere in mano l’iniziativa, occupando saldamente il centro del palcoscenico. E la sua promessa è chiara: conquistare il mondo per liberare tutti i popoli oppressi. E pazienza se il prezzo da pagare per la libertà sarà la morte.
Qualcosa di analogo (anche se ovviamente ben lontano dalle atmosfere fantasy del serial tratto dai libri di George Martin) accadeva in Homeland, fra la sesta e la settima stagione, quando l’eroica Carrie Mathison (Claire Danes) si trovava prima a difendere e poi a combattere il primo presidente donna degli Stati Uniti, Elizabeth Keane, paladina dei principi democratici che a un certo punto sprofonda nella più nera paranoia, arrivando a istituire una sorta di Terrore, di cui rimane vittima gran parte della comunità dell’intelligence statunitense.
Follia e paranoia ritornano come una sfumatura acida e inquietante su molte delle protagoniste della serialità televisiva, quando si parla di potere declinato al femminile. E forse non è esattamente un buon segno, se ci ragioniamo un attimo.
Pensiamo alla parabola discendente raccontata in House of Cards. Finché Claire Underwood (Robin Wright) trama all’ombra del marito Frank (Kevin Spacey), prima per farlo eleggere presidente e poi, ormai First Lady, per difendere il potere acquisito con le unghie e con i denti, e se occorre con il sangue, va tutto bene. Il personaggio di Claire, nonostante le manipolazioni e i tradimenti, le tante scelte discutibili, ci sembra quello a cui può essere affidato quel poco che resta di buon senso, se non di bontà. Una volta accettato il principio del fine che giustifica i mezzi, ovviamente. Nella sesta stagione, rimasta sola (principalmente perché Kevin Spacey, nella realtà dall’altro lato dello schermo, era stato travolto dallo scandalo per una storia di forse presunte molestie sessuali), Claire Underwood si trasforma in una sorta di delirante assassina seriale, anche se di solito per interposta persona. Nella sua esibita solitudine diventa chiaro che l’unico obiettivo del potere è il perpetuarsi del potere stesso.
Notizie più confortanti arrivano dalla serialità europea, scandinava in particolare. CI riferiamo alla serie Borgen, che è riuscita a essere anche profetica: durante le riprese della serie incentrata su Birgitte Nyborg Christensen (Sidse Babett Knudsen), prima premier danese donna della storia (nella finzione), in Danimarca è stata eletta (per davvero) Helle Thorning-Schmidt. E certo anche in Borgen la politica non ci appare come un gioco pulitissimo e moralmente ineccepibile, ma si resta lontani anni luce dalle nefandezze messe in scena nell’americana House of Cards. Ma anche in un’altra serie di cui consigliamo la visione a proposito di potere al femminile: Scandal, protagonista Olivia Pope (Karry Washington), infallibile crisis manager al servizio della Casa Bianca e non solo, tutte le volte che si tratta di risolvere una questione spinosa, evitare uno scandalo, salvare la reputazione di qualche intoccabile, rigorosamente evitando di arrivare nelle aule di un tribunale. Perché il compito di questi «gladiatori in giacca e cravatta» (nel suo caso scarpe Louboutin e raffinati abiti strafirmati) non è il trionfo della giustizia ma la salvezza del cliente di turno. Cliente che può essere anche il presidente degli Stati Uniti in persona, con cui Olivia ha una relazione clandestina, cosa che la trasforma in una sorta di First Lady ombra.
Un ruolo fondamentale, fra realtà e finzione, ma chissà, potrebbe essere destinato alla scomparsa, prima o poi. È notizia di questi giorni: Irina Karamanos, compagna del presidente cileno Gabriel Boric, ha dichiarato che la carica di First Lady è ben poco democratica e basata su stereotipi di genere, e propone di abolirla. Naturalmente a partire da sé stessa, rinunciando al suo personale ruolo di potere. Ma lo farà davvero? O anche per lei continuerà a valere la frase immortale che tutti ben conosciamo: “Il potere logora chi non ce l’ha”?