Scalate senza scrupolo alcuno, intrighi, lotte e tranelli, cattivissimi e cattivissime nei palazzi della politica. Serie su serie dedicate alla conquista del potere non lasciano troppe illlusioni: c’è anche posto per qualche eccezione – The West Wing per esempio – ma peccato che la realtà – vedi Trump – riesca a superare ogni fantasia…
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva qualcuno. Certo, a guardare il modo in cui la serialità televisiva racconta l’intreccio tra politica, affari e società, non sembra proprio che il potere faccia davvero bene a qualcuno. Anche solo per il fatto che il mondo è pieno di cani (dalle sembianze più che umane) che ti vogliono portare via l’osso. A qualunque costo. Una constatazione che sembra dimostrarsi vera un po’ a tutte le latitudini.
Per esempio, nella serie taiwanese Wave makers su Netflix, tutta incentrata sull’attività dell’ufficio stampa di un partito politico in vista delle elezioni presidenziali. Il partito in questione ha un nome immaginario, ma rimanda esplicitamente al Partito progressista democratico (DPP), nella realtà vincitore delle ultime e recentissime elezioni che hanno portato alla presidenza William Lai. Anche il partito avversario è immaginario ma ricorda parecchio le effettive posizioni del KMT, che ha perso le elezioni scontentando molto il suo più convinto sponsor, la Cina continentale che non perde mai l’occasione di ribadire che esiste un’unica Cina, di cui Taiwan deve fare inevitabilmente parte. Nella serie però la questione dell’indipendenza è lasciata decisamente sullo sfondo. Il fulcro è piuttosto il racconto di una campagna elettorale molto combattuta e non priva di colpi di scena, tra intrighi e doppi giochi, compromessi e dilemmi, con in più il tocco ai nostri occhi un po’ folcloristico dei comizi coloratissimi e somiglianti a piccoli concerti.
Sempre dall’estremo oriente, sempre su Netflix, merita una visita anche Chief of Staff, una serie sudcoreana composta da due stagioni per un totale di venti puntate, uscita nel 2019 ma in Italia passata del tutto inosservata. Ingiustamente. Perché questo affresco della vita politica in Corea del Sud è molto interessante, soprattutto per la capacità di raccontare i meccanismi del potere e dell’ambizione attraverso il doppio sguardo dei due protagonisti: Jang (Lee Jung-jae, tra gli interpreti di Squid Game) e Kang, interpretata da Shin Min-a, rispettivamente un ex poliziotto diventato assistente personale di un politico senza scrupoli, e un’avvocata spesso chiamata a dibattere di politica nei talk-show. I due sono schierati al fianco di due politici aspramente rivali, ma segretamente si frequentano. C’è chi l’ha definita un vero e proprio capolavoro, avvicinandola addirittura a The West Wing. Un paragone decisamente azzardato, a mio avviso.
Nonostante sia andata in onda tra il 1999 ed il 2006, e sia quindi ormai piuttosto datata, la serie firmata da Aaron Sorkin è davvero un capolavoro, capace di mettere in scena – attraverso le vicende del presidente Josiah “Jed” Bartlett (Martin Sheen) e del suo staff, dal capo di gabinetto Leo McGarry (John Spencer) all’addetta stampa C.J. Cregg (Allison Janney) – la vita quotidiana alla Casa Bianca come fosse un thriller avvincente e al tempo stesso una commovente commedia umana. Un vero e proprio pilastro della serialità televisiva, che riesce a raccontare i meccanismi (anche perfidi) della politica senza mai perdere di vista onestà, ideali ed empatia. Il tutto grazie a una capacità di racconto davvero prodigiosa, di cui Aaron Sorkin (autore pressoché esclusivo delle prime 4 stagioni) aveva dato prova anche in un’altra serie piuttosto sfortunata, The Newsroom (solo tre stagioni, attualmente disponibili su Sky), ottimo affresco dell’intreccio perverso tra politica, comunicazione e giornalismo. Secondo alcuni Sorkin è però esageratamente ottimista, quando parla di politica, e la sua visione, soprattutto in The West Wing, è stata spesso definita troppo buonista. Ammesso e non concesso, può essere utilmente corretta dalla parallela visione di House of Cards (Netflix).
Adattamento dell’omonima miniserie andata in onda sulla BBC agli inizi degli anni Novanta, basata sul libro omonimo di Michael Dobbs, consigliere di Margaret Thatcher, House of Cards è un ritratto al vetriolo di una spietata scalata al potere con tutti i mezzi possibili e immaginabili, leciti ma soprattutto illeciti, che vede protagonisti Frank Underwood (Kevin Spacey) e la moglie Claire (Robin Wright). I due conquistano insieme la Casa Bianca e mai, nemmeno per un istante, danno l’impressione di avere come obiettivo la politica come gestione della cosa pubblica e il potere come esercizio di umiltà al servizio del popolo e nell’interesse della collettività. Una coppia di cattivissimi talmente ben riuscita da catturare l’attenzione degli spettatori per ben 6 stagioni (andate in onda tra il 2013 e il 2018). Spettatori che da una parte non possono fare a meno di inorridire davanti ai loro criminali maneggi e dall’altra seguirli affascinati, come i topi la musica del pifferaio che tutti li trascina verso il baratro e la morte.
Naturalmente, la realtà supera spesso l’immaginazione, lo sappiamo bene, e l’affacciarsi sulla scena politica di Donald Trump in questi ultimi anni lo ha dimostrato nel modo più agghiacciante. E ancora non è finita. Purtroppo.
Pensando a Trump, viene in mente la serie The Good Fight (Prime Video), spin-off della celebrata The Good Wife, che ha visto la luce nel 2016, l’anno in cui Trump è diventato presidente degli Stati Uniti scippando la vittoria a Hillary Clinton. Tra una truffa finanziaria e una complicata causa da seguire, le protagoniste (Christine Baranski, Cush Jumbo, Rose Leslie), socie di un prestigioso studio legale di Chicago, si trovano ad affrontare l’attualità dell’America trumpiana. E The Donald diventa una sorta di convitato di pietra: in ogni intreccio, in ogni episodio la sua ombra appare sullo sfondo, mentre in primo piano si affrontano temi come la post-verità, la manipolazione delle notizie e il razzismo endemico della società americana.
Una serie molto interessante che indaga le dinamiche di potere adottando un punto di vista femminile è l’ottima Gaslit (Starzplay). Protagonisti sono Sean Penn (irriconoscibile) e Julia Roberts, matronale e supercotonata. Insieme portano sullo schermo una delle coppie più potenti nell’America dei primi anni Settanta: Martha e John Mitchell. Lui era procuratore generale e grande amico del presidente Nixon, lei era più famosa della first lady, ospite fissa dei più seguiti show televisivi. Otto puntate contraddistinte da una confezione elegante e da un ritmo trascinante, con in più una recitazione impeccabile e una sceneggiatura cinica e precisa, al servizio di una storia vera, bizzarra e notissima, che magari pensate di conoscere fin troppo, visto che si parla dello scandalo Watergate, cioè di qualcosa che ci hanno già raccontato mille volte in tutte le possibili salse. Ma questa volta il punto di vista del racconto è inedito e molto particolare. Perché di Martha Mitchell nessuno ha mai parlato, ma è stata lei la prima a raccontare al mondo lo scandalo che avrebbe travolto suo marito e Richard Nixon.
Sempre sullo sfondo della Casa Bianca e ugualmente poco rassicurante, è consigliabile anche The Night Agent (Netflix), tutta incentrata su un complotto per distruggere la democrazia, a base di omicidi e sanguinosi attentati. Rose (Luciane Buchanan) è cresciuta con gli zii, dopo l’opportuna scomparsa di una madre alcolista, ed è un genietto dell’informatica, capace di creare una startup di successo, ma non di difenderla dagli imbrogli di finti amici con pochi scrupoli. Peter (Gabriel Basso) è un agente dell’FBI abile e ambizioso, ma marchiato a vita dalla figura del padre, morto suicida e in odore di tradimento. I due si incrociano in una notte di tregenda e si trovano ben presto a lottare (da soli, o comunque senza mai poter sapere di chi fidarsi e di chi no) contro il resto del mondo. Due giovani anime ferite alle prese con un complotto feroce che coinvolge i più alti gradi dell’intelligence americana e la stessa Casa Bianca. Un buon prodotto di genere, di cui è prevista una seconda stagione in arrivo a marzo.
Casa Bianca e dintorni in salsa thriller sono gli ingredienti anche di Designated Survivor (Netflix).
Il protagonista è Kiefer Sutherland, nei panni del “sopravvissuto designato” a cui fa riferimento il titolo, vale a dire il membro del governo che in occasione dell’annuale discorso sullo Stato dell’Unione (tenuto dal presidente degli Stati Uniti al Congresso di fronte alle camere riunite, ai giudici della Corte Suprema e a tutto il Gabinetto, compresi i vertici delle forze armate) se ne sta semplicemente a casa in pantofole a seguire la diretta in TV insieme alla famiglia. Fino al momento in cui un attentato azzera l’intera catena di comando e lui si ritrova catapultato ai vertici della nazione, senza avere la più pallida idea di quello che ci si aspetta da lui. Un’idea originale che naufraga strada facendo, arrivando molto a fatica alla terza stagione. Colpa in gran parte di una sceneggiatura che non riesce a decidere se inseguire il thriller o approfondire la parte politica, e finisce col mescolare continuamente i generi senza arrivare a un finale soddisfacente.
Politica e thriller sono gli ingredienti anche di The Diplomat (Netflix), con Keri Russell nei panni dell’ambasciatrice americana a Londra. Al suo fianco Rufus Sewell, che con quella faccia da bastardo inside si fa davvero fatica a vedere nel ruolo del marito gentile e innamorato, schierato al fianco di una donna che sta facendo più carriera di lui (essendo già destinata alla carica di vicepresidente). Nel cast anche Rory Kinnear, nei panni dell’altezzoso primo ministro inglese: semplicemente perfetto, e infatti da lui puoi solo aspettarti il peggio…Intanto che uomini e donne vestiti di scuro parlano e camminano, trescano e tradiscono, costruiscono strategie e difendono interessi (di solito lontanissimi da quelli di noi, common people), una portaerei della Marina inglese viene bombardata da un nemico sconosciuto e si arriva sull’orlo di una guerra, tra un colpo di scena e un altro.Interessante ma non del tutto convincente, soprattutto perché dopo otto puntate, quando è il momento di tirare i fili e avviarsi a conclusione, ecco spuntare un cliffhanger semplicemente demenziale, il cui unico obiettivo è garantire la realizzazione di una seconda stagione.
Parlando dei meccanismi della lotta politica, c’è da segnalare The Politician, molto intrigante e passata quasi del tutto inosservata (due stagioni per un totale di 15 episodi, su Netflix). Creata da Ian Brennan (Dhamer), Brad Falchuk (American Horror Story) e Ryan Murphy (Glee, Nip/Tuck), The Politician segue le avventure di un giovane rampollo di una ricchissima famiglia della West Coast, che già a 17 anni ha deciso che cosa vuole fare da grande, e si tratta di un obiettivo molto specifico: diventare il Presidente degli Stati Uniti. Per farlo deve riuscire a entrare a Harvard, ma ancora prima diventare presidente del consiglio studentesco del suo prestigioso liceo. Impresa che si scoprirà più difficile del previsto, soprattutto perché il protagonista, Payton Hobart (interpretato da Ben Platt), si troverà a combattere senza esclusione di colpi con un carissimo amico, che si rivelerà più fragile di quello che sembrava, e destinato a una drammatica uscita di scena. Una serie che inizia come una commedia ma si fa via via più nera, perché i giovani protagonisti si rivelano davvero pronti a tutto, pur di raggiungere il loro obiettivo – il potere, il potere, nient’altro che il potere. Per farci cosa? Una domanda che non sembra importante, tant’è che nessuno sembra porsela mai, neanche per un istante.