Archiviate l’idea tradizionale del western. Assumendo la forma seriale, il genere lascia spazio a figure femminili inedite. I risultati? Non sempre all’altezza delle aspettative
Lo hanno dato per morto tante volte il western, ma è un genere coriaceo, non si lascia seppellire, e ogni volta rinasce. Sempre più spesso, da qualche anno a questa parte, ha assunto una forma seriale, come se i confini di un singolo film non fossero sufficienti a contenere i suoi smisurati orizzonti. Sempre più spesso ha rivoltato regole e stilemi consolidati nei decenni per lasciare spazio a figure femminili inedite, capaci di infondere nuova energia a quello che è stato sempre considerato il genere maschile per eccellenza. Un’operazione che risponde perfettamente allo spirito di questa nostra epoca, e come tale va in generale salutata con favore. Resta il fatto che la via dell’inferno è spesso lastricata di buone intenzioni, e i risultati non sono sempre all’altezza delle aspettative.
Django – la serie (su Sky e Now TV) per esempio nasce con le migliori intenzioni e con un’etichetta assai esplicita: “spaghetti western femminista”, ma mantiene ben poche delle sue promesse. A partire da un celebre classico del 1966 di Sergio Corbucci, già rivisitato da Quentin Tarantino, Maddalena Ravagli e Leonardo Fasoli hanno creato una miniserie in dieci puntate che riscrive in salsa contemporanea una serie di cliché, dal pistolero solitario in cerca di redenzione al feroce sterminatore di peccatori, dalla figlia ritrovata alla comunità utopica, che in questo caso si chiama New Babylon e si trova sul fondo riarso di un cratere, nel Texas di fine Ottocento. Le prime quattro puntate le ha dirette Francesca Comencini e il cast è decisamente internazionale, dal belga Matthias Schoenaerts (nei panni che furono di Franco Nero) alla svedese Noomi Rapace (in quelli della cattivissima e potente signora di Elmdale, malata di odio e di fanatismo religioso). Il risultato è un prodotto ambizioso, che sembra voler proporre una lettura rarefatta, filosofica quasi, dell’universo western, ma che finisce col girare in tondo, adagiandosi in tempi inutilmente dilatati e ridondanze indigeste, in un ritmo talmente lento da risultare estenuante – anche nei momenti in cui si succedono azioni e reazioni, fra sparatorie, duelli, incendi e inseguimenti a cavallo.
Parlando sempre di serie di produzione italiana, è comparsa da non molto (su Paramount+) That Dirty Black Bag, una sorta di esplorazione horror dell’universo western nella sua versione più grottesca. Prodotta da Palomar e Bron Studios, girata tra la Puglia, il deserto del Sahara e l’Almeria, una serie in otto puntate che cerca di rinnovare il genere pigiando con forza sul pedale dell’esagerazione, tra cacciatori di taglie (Douglas Booth) che girano in compagnia di sacchi pieni di teste mozzate, sceriffi senza scrupoli (Dominic Cooper), contadini in lotta contro la siccità e personaggi decisamente pericolosi come l’ambiguo Bronson (Guido Caprino). Anche qui, come si conviene, c’è un bel personaggio femminile: Eve (Niv Sultan), l’energica tenutaria del bordello. Ma non basta. L’intera impresa, pur inizialmente interessante, si avvita in una fitta serie di brutalità gratuite e twist che vorrebbero essere sorprendenti e finiscono con l’essere insensati, mentre il grottesco sprofonda nel ridicolo.
Negli ultimi mesi si è tanto parlato di The English, come esempio di serie neo-western con un’inedita eroina saldamente piazzata al centro della scena. Ma in realtà non è certo la prima. Nel 2017 su Netflix era già arrivata Godless, creata dallo sceneggiatore Scott Frank e prodotta da Steven Soderbergh. In una cittadina del New Mexico dove la popolazione maschile è stata praticamente azzerata da un’esplosione in una miniera, una comunità quasi di sole donne – in gran parte vedove e madri single – combatte per difendere la propria libertà, ma rischia di rimanere schiacciata dalla guerra all’ultimo sangue tra il perfido e vendicativo Frank (Jeff Daniels) e il giovane fuggitivo Roy (Jack O’Connell). Una serie violenta e affascinante, dalla fotografia livida, volutamente ben poco glamour, capace di trasmettere un certo senso di inquietudine e disperazione. Vale la pena di vederla anche solo per ritrovare la Michelle Dockery di Downton Abbey nel ruolo del tutto inedito di una giovane vedova armata e pronta a tutto.
Anche la protagonista femminile di The English (su Paramount+) è impavida e affascinante, perfetta incarnazione del nuovo ruolo delle donne nel Far West. A interpretarla la brava Emily Blunt, nei panni di Lady Cordelia, un’aristocratica inglese in cerca di vendetta: vuole trovare e punire l’uomo responsabile della morte di suo figlio. Nella sua lunga odissea nel selvaggio West del 1890 potrà contare sull’aiuto di Eli Whipp (Chaske Spencer), un nativo americano ex scout della cavalleria, deciso a tornare in Nebraska per reclamare i pochi acri di terra che per legge gli spetterebbero per aver servito nell’esercito. Due destini che si intrecciano sullo sfondo di una terra arida e feroce, in un lungo viaggio che riesce a essere emozionante anche quando la messa in scena si fa un po’ troppo estetizzante. La fotografia polverosa, spesso intessuta di colori sgargianti e percorsa da figure grottesche, mantiene in gran parte un tono crepuscolare e riflette perfettamente lo stile ricercato tipico dell’inglese Hugo Blick, che ha scritto, diretto e prodotto tutti gli episodi (girati interamente in Spagna, proprio come una volta gli spaghetti western). The English non è esente da difetti – in particolare un certo manierismo postmoderno evidente nella narrazione a mosaico, che compone e scompone la storia incastrando qualche flashback di troppo, ma anche in alcuni dialoghi lunghissimi, fascinosi ma anche inevitabilmente artificiosi. Resta comunque uno degli esiti migliori di questa nouvelle vague western a cui stiamo da qualche tempo assistendo.
Una rinascita in realtà iniziata nel 2016 con una serie di enorme successo, che ha riportato in auge pistoleri e saloon ma in una cornice di fantascienza. Parliamo di Westworld, naturalmente: capolavoro di contaminazione e narrazione abissale, dove ritroviamo la solita vecchia cittadina del Far West popolata di androidi senzienti, perfettamente identici a esseri umani al punto da credere di esserlo e da pretendere di diventarlo, prima o poi. Ma destinati invece a essere usati come carne da macello, a disposizione dei ricchi clienti che in questo parco-giochi – un mondo futuristico che somiglia in tutto e per tutto alla leggendaria epoca del mito americano – possono fare degli androidi ciò che vogliono: torturarli, stuprarli, ucciderli. Senza pietà.
Westworld si iscrive a pieno titolo nella folta schiera di titoli che scelgono la contaminazione come terreno privilegiato di scambio e reinvenzione, come cifra per tenere insieme richieste diverse e probabilmente pubblici differenti. La cifra della contaminazione è quella che contraddistingue anche 1923 (sempre su Paramount+), prequel di Yellowstone, sempre firmato dal geniale Taylor Sheridan, che si presenta come un mix fra avventura esotica e western. A onor del vero, il primo ingrediente non è così convincente. Le parti africane di 1923, con Spencer Dutton (Brandon Sklenar) reduce traumatizzato dalla Prima guerra mondiale che cerca di riprendersi dall’orrore cacciando grandi felini nella savana, hanno un’atmosfera da “cacciatore bianco cuore nero”, con tanto di meravigliosa Rolls bianca con fustone bello e dannato, e donzella bionda e ribelle in fuga dalle convenzioni e da un fidanzato gentile e noioso. La parte girata in Montana è meglio, decisamente meno glamour, fra fanciulle indiane seviziate da suore crudeli e vecchi allevatori senza pietà, ma nonostante la magnifica coppia formata da Helen Mirren & Harrison Ford non riesce a convincere.
Nel complesso mi ha convinto molto di più l’altra serie spin-off creata da Sheridan a partire da Yellowstone, e sempre dedicata alle vicissitudini della famiglia Dutton: 1883 (Paramount+). Qui è Elsa Dutton (Isabel May) il personaggio centrale, dalla cui voce narrante ci facciamo accompagnare per dieci episodi e migliaia di chilometri verso Ovest, in cerca di fortuna e della terra dove realizzare i propri sogni, ma dove nella maggior parte dei casi si trova solo la morte. Un prequel struggente, drammatico, che unisce l’incanto di paesaggi meravigliosi al continuo tentativo di ricordare quanto fosse terribile la vita nel selvaggio West. Pur con qualche ridondanza, un tentativo riuscito di comporre un “ritratto di famiglia in West” con al centro una ragazzina che incarna il futuro, la speranza, il bisogno di continuare a sognare (anche se dovessimo un giorno scoprire che quei sogni non si sono realizzati). Insomma, una rilettura dei codici del genere western al tempo stesso nuova e perfettamente inserita nella tradizione.
Del resto, rinnovare davvero il western è impresa molto difficile. Le possibili variazioni sul tema sono inevitabilmente limitate, perché non cambiano davvero col cambiare del mondo. L’universo del western appartiene al territorio della leggenda – e non una leggenda qualsiasi, parliamo della leggenda fondativa di un paese intero – per questo non può davvero cambiare. Le carte quelle sono, prendere o lasciare. Si possono scambiare, ma non davvero reinventare. Forse proprio per questo il western più di altri generi ha bisogno di un’anima per salvarsi dall’eterna e noiosa ripetizione dell’uguale, solo minimamente ritoccato a uso e consumo degli smemorati.
Proprio perché c’è bisogno di infondere un’anima ai personaggi, per salvarsi dall’insignificanza, uno dei film più belli degli ultimi anni è un western, Il potere del cane di Jane Campion. Un film claustrofobico, ieratico e gelido, costruito come un labirinto popolato di fantasmi e ossessioni, dove il senso si smarrisce e le pulsioni diventano ingovernabili, soprattutto perché destinate a rimanere oscure, inesplorate, rimosse. Una parabola di amore e morte, manipolazioni, vendette e menzogne, che solo per caso, o per denaro, è diventato un film Netflix.
Per lo stesso motivo, parlando delle nuove eroine western, la più sorprendente e memorabile resta alla fine la Dolores di Westworld, ovvero il personaggio che più denuncia e sottolinea quanto i personaggi di una narrazione non valgano per il loro essere realistici, ma per la loro capacità di diventare significativi.