Le 630 pagine di ‘Patria’ di Fernando Aramburu non si mettono da parte facilmente: un romanzo straordinario che racconta la questione basca attraverso la lente del micro, della vita diversamente spezzata di due famiglie e che, con il pensiero alla Catalogna, lascia un segno potente
Succede a molti in questi giorni, credo, di guardare a quel che sta accadendo in Catalogna con qualche forte apprensione. Una comunità lacerata, la corsa verso un’indipendenza fondata sulla propria storia e sulla propria lingua. Chiedersi se poi non potrebbe finire male, nell’odio fratricida e nel sangue. Tanto più ci si interroga avendo appena letto Patria di Fernando Aramburu (Guanda, 19 euro) che molti considerano uno dei più grandi romanzi europei degli ultimi decenni. Aramburu, basco di San Sebastiàn, è nato nel 1959, l’anno di fondazione dell’Eta (Euskadi Ta Askatasuna, cioé Paese basco e libertà), la formazione armata che per 52 anni (fino al 2011, quando avrebbe dichiarato la fine delle ostilità) ha combattuto una guerra terroristica per ottenere l’indipendenza e la creazione di uno stato socialista basco. Una guerra che ha fatto un migliaio di morti (i bersagli erano soprattutto le forze di polizia, uomini politici, giornalisti, imprenditori, ma gli attentati esplosivi hanno fatto vittime anche fra i passanti), e ha portato in carcere per decenni una generazione di militanti.
Aramburu sa di cosa parla, ma il suo non è un libro di storia dell’Eta. Sceglie invece abbassare lo sguardo dentro una piccola comunità (un non identificato paese alle porte di San Sebastiàn) e dentro due famiglie. Quella di Txato e Bittori (Vittoria) e quella di Joxian e Miren, due coppie vicine di casa, amiche da sempre, i cui figli sono cresciuti insieme. Txato e Joxian sono come fratelli: le partite a carte all’osteria, le pedalate in bicicletta. Finché Txato, piccolo imprenditore di una ditta di trasporti, non viene preso di mira dall’Eta. Prima con le estorsioni, il “pizzo” per finanziare la lotta armata. Poi, quando non è più in grado di pagare, con l’emarginazione, le scritte sui muri che lo etichettano come capitalista e spia. Infine, con quattro colpi di pistola che lo abbattono sotto casa. Joxe Mari, il figlio di Joxian e Miren, è un militante clandestino dell’Eta e forse ha partecipato all’assassinio dell’amico del padre, quello che da bambino lo teneva sulle ginocchia.
Patria è anche un romanzo di grandi personaggi femminili. Miren, accecata dall’amore per il figlio terrorista. E Bittori, la vedova che torna nella vecchia casa al paese per farsi vedere, affrontare la comunità che l’ha emarginata e vive il suo ritorno come un’offesa, e soprattutto chiedere la verità: vuole sapere chi gli ha ammazzato il marito, e vuole che gli assassini le chiedano perdono. La via del riconoscimento reciproco, della verità e del perdono, è la più difficile da percorrere. L’abbiamo visto in tante nazioni dilaniate, dal Sudafrica alla Bosnia. Intorno alle due donne ruotano i personaggi dei figli, anche loro traumatizzati dalla tragedia. Il terrorista Joxe Mari, la cui carriera di killer lottarmatista per l’indipendenza basca finisce con la cattura, le torture poliziesche, il carcere. E gli altri, ciascuno con un suo percorso per uscire dal pantano dell’odio e del sangue. Patria è anche un romanzo sulla disgregazione di una comunità, sulla vigliaccheria di tanti e sul coraggio di pochi, sul gelo che riesce a pietrificare anche due famiglie amiche, sull’aspirazione alla libertà che degenera nell’infamia sanguinosa.
Aramburu non ha scritto un romanzo a tesi, che ci lascerebbe forse distanti. Ma è riuscito a governare le sue 630 pagine (benissimo tradotte da Bruno Arpaia) con una straordinaria capacità di penetrazione psicologica, e una lingua che riesce ad essere colloquiale e profonda. Qualcuno ha criticato l’eccessiva lunghezza del romanzo. Io ne sono uscito a malincuore, desiderando che non finisse. La mia impressione è che i personaggi fossero veri e onesti, vivi e riconoscibili. E considero di aver imparato qualcosa da questo affresco sulla degenerazione di una lotta che aveva obiettivi condivisibili, all’apparenza. L’Eta, fino a quando ci si è illusi che l’antifranchismo fosse pare fondante della sua guerra, ha riscosso molti favori e appoggi nelle sinistre europee, quella italiana compresa. Oggi, facendo un bilancio dei vivi e dei morti nei 52 anni di indipendentismo basco, guardiamo con qualche forte preoccupazione alla situazione catalana, così come a quelle di ogni “piccola patria” che rivendica nuovi confini, nuove divisioni, nuove emarginazioni. In Catalogna nessuno ha preso le armi, ma non c’è forse da stare tranquilli se è vero che anche lì c’è chi pensa di isolare chi non parla la lingua dell’autonomia.
Immagine di copertina: Amnistia eta Askatasuna di Arrano