Patrioti o impostori? L’impresa dei Mille riveduta e corretta

In Cinema

Dopo il trionfo di “La stranezza” si riforma il quartetto Andò (regia), Servillo, Ficarra e Picone (attori) che in “L’abbaglio” ricostruiscono un pezzo della genesi dell’unità d’Italia. Spiegando che la formazione dell’esercito di Garibaldi fu piuttosto spiccia perchè l’azione era imminente e che in quelle fila non mancarono eroi per sbaglio (o finta) e mentitori seriali. Un film brillante ma con qualche riflessione seria sulla necessità di raccontare la nostra storia. Sorretto da tre attori decisamente in forma, mentre la regia non sempre riesce a evitare le trappole di un impianto un po’ teatrale

Maggio 1860, si sta preparando la spedizione dei Mille e Giuseppe Garibaldi (Tommaso Ragno) affida il comando dell’impresa al colonnello Vincenzo Giordano Orsini (Toni Servillo). I volontari vanno reclutati in fretta e non si può andare tanto per il sottile, vanno bene tutti: anziani e giovanissimi, abili e sprovveduti, soldati specializzati in fuochi d’artificio come il claudicante Domenico (Salvo Ficarra) e mentitori seriali con un debole per il gioco d’azzardo come il fascinoso Rosario (Valentino Picone). L’importante è che le navi (che devono trasportare le truppe garibaldine) si presentino puntuali all’appuntamento con la storia e che i siciliani accolgano nel modo giusto i liberatori, anche quando si presentano sotto le spoglie più che altro di impostori.

La feroce sintesi contenuta nella frase celeberrima del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”) in L’abbaglio di Roberto Andò non viene citata, ma in fondo è come se apparisse fin dalla prima scena, lampeggiando a caratteri cubitali. La chiave del racconto è infatti già tutta nel titolo, l’abbaglio, e nel carattere dei due protagonisti di fatto: Domenico e Rosario, liberatori per finta, disertori per indole, eroi per sbaglio. E nonostante tutto capaci di convincerci a seguirli, comprendendo le loro ragioni, giustificando i loro torti. Certo, anche le battaglie morali e il rigore calvinista del colonnello Orsini ci appartengono, in qualche modo: ma è come se quello fosse il Super Io a cui tendere, in una sorta di impossibile missione di cambiamento e rivoluzione, che riguarda il mondo e prima di tutto noi stessi.

E allora che cosa resta del Risorgimento, della nostra storia di eroismo e liberazione, di un paese finalmente unito (160 anni fa) e ancora così diverso e sghembo? Molto poco, verrebbe da dire, ma proprio per questo il film di Roberto Andò prende significato, se non vera necessità. Raccontare le pagine fondamentali della nostra storia è sempre un’impresa complessa, che si presta a non pochi equivoci e possibili fraintendimenti. E in fondo è stato fatto meno di quello che si sarebbe potuto fare, come se il nostro cinema fosse proprio incapace di guardarsi fino in fondo in quello specchio, non sempre glorioso e troppo spesso a rischio di finire in frantumi.

L’abbaglio è un film che trova nei suoi interpreti, impegnati in una trionfale gara di bravura, la chiave della sua riuscita, ma ogni tanto annaspa e inciampa in un impianto più teatrale che cinematografico. Un racconto che diverte e avvince ma non convince del tutto, soprattutto nei lunghi periodi in cui la sceneggiatura perde qualche colpo nell’alternare momenti comici e riflessioni storico-politiche, e la regia si concede ridondanze tutt’altro che indispensabili.

L’abbaglio, di Roberto Andò, con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Tommaso Ragno, Giulia Andò

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