A vent’anni dalla scomparsa del Signor G, al Teatro Franco Parenti, Gioiele Dix fa un esperimento “libero di teatro canzone rileggendo a proprio modo anche il Gaber inedito.
Ci si può aspettare di tutto da un architetto, anche una casa. Cosa ci si può aspettare da un cassetto che si riapre dopo vent’anni? Di tutto. La politica, l’amore, l’ironia, la città, esce letteralmente di tutto dai cassetti che la Fondazione Gaber ha concesso di aprire a Gioele Dix. Una varietà di appunti, varianti, incompiuti, soprattutto inediti. Soprattutto una memoria, che da personale si fa condivisa. Ma per fortuna che c’era il Gaber, in scena al Teatro Franco Parenti fino a domenica 21, è una sintesi, un precipitato di tutto questo.
Delle memorie personali di un ragazzo che ha visto presto, dentro gli spettacoli del signor G, una traccia del suo futuro e che poi, giovane professionista, si è trovato ad essere lui riconosciuto dall’uomo a cui in qualche modo doveva il suo inizio, al bar di un albergo di Mestre. E poi dei sentimenti collettivi di una generazione che ci credeva davvero, di poter cambiare il mondo. A cui la rivoluzione sembrava qualcosa di davvero vicino, tangibile, o quantomeno verso cui si poteva riconoscere la strada: la politica, quella “partecipazione” che sarebbe stata poi messa in canzone e svilita dal tempo ma che, allora, aveva il connotato di una presa di parola a cui non si dava alternativa.
I ragazzi di allora che in Gaber trovavano un interlocutore attento e mai accomodante, persino spigoloso a un certo punto, ma capace di conservare – e rivendicare, pur senza mai vantarlo, l’acume e la statura dell’intellettuale. E poi le memorie riemerse, quelle a cui Paolo dal Bon, presidente della Fondazione Gaber, ha dato accesso in forma di fogli, appunti e porzioni di cui spesso non si conosceva forma, data o destinazione. Lacerti da cui lo stesso attore milanese, ma soprattutto il pianista Silvano Belfiore e il chitarrista Savino Cesario hanno provato a ridare una forma compiuta, che le rispettasse e coincidesse, però, anche coi tempi e col proprio sentire. Ha questo, di originale e al tempo stesso di coraggioso, il lavoro su questo spettacolo: l’aspetto più delicato: l’aver scelto di fare emergere nuovo materiale non purchessia, ma facendone qualcosa di personale, lontano verosimilmente dalle scelte (soprattutto musicali) che avrebbe potuto fare il signor G, ma coerente con quello di chi vuole eternarne la memoria: per fortuna che c’è stato, insomma, e da qui si può continuare.
Quel che ne emerge è un tentativo di teatro canzone che, per tenere insieme editi e inediti, dal Gaber politico a quello sentimentale e dolente, sceglie una sonorità che vira al jazz, con un tocco di blues, e anche se al protagonista manca la voce sostenuta del crooner, anche qualche passaggio forse più affaticato conserva, per un’artista a cui la legittimazione data dalla carriera consente qualche cedimento, la sincerità di chi paga, insieme al pubblico, un debito di gratitudine. All’artista, al pensatore, ma forse soprattutto all’uomo. Non quello privato, s’intende, ma a colui che sa fotografare le fragilità dell’umano, il momento in cui riconoscere il proprio limite. Sia esso sentimentale – l’esilarante apologo dei signori Pautasso, separati a novant’anni perché “abbiamo aspettato che morissero i figli” non è gaberiano, è di Lella Costa, ma potrebbe senza difficoltà venire dai cassetti di casa Gaberscik – o politico: quello che a Dix preme raccontare è (anche) il Gaber che maneggiava senza paura la parola rivoluzione, e d’altro canto sapeva di essere l’emblema di una sconfitta. La mia generazione ha perso, diceva negli anni Duemila.
Ma oggi restano le domande che dall’amara constatazione sorgono: chi ha perso? Cosa è andato perso? Per colpa di chi? Ma per fortuna che c’era il Gaber è un viaggio a cui Gioele Dix e i suoi musicisti consegno la leggerezza di un dialogo a briglia sciolta, che – programmaticamente – appare quasi a braccio, e in cui si apprezza tutto il mestiere dell’attore di esperienza che lo porge al pubblico col consueto talento affabulatorio, soprattutto laddove può appoggiarsi al recitato che gli appartiene come a pochi altri. E dove si ritrovano, vent’anni dopo, il mestiere e il talento di chi le scriveva, sia in tutte le parole che sembrano ancora scritte domani mattina, sia laddove – e accade pochissimo – mostri leggermente la corda del tempo, vuoi per riferimenti politici oggi difficili da collocare vuoi per l’uso di passaggi su cui oggi si sarebbe forse più timidi.
Perché Gaber, anche adesso, anche riconoscendosi figlio del suo tempo ti sa mettere scomodo e lasciarti qualcosa. Come negli anni Settanta, quando – la sintesi di Dix è intelligente e fulminante) lo applaudivi ma nel frattempo ti domandavi: perché sto applaudendo? Che cosa mi piace, di quello che ho sentito? Perché di sicuro c’è qualcosa che non mi piace”.
E allora anche il Gaber degli esordi, quello (apparentemente?) leggero che va dallo Shampoo a Torpedo Blu rimane qualcosa di più che un allegro finale (felici tutti, direbbe Morante) per far cantare una sala gremita e andare a casa contenti che Giorgio Gaber ci sia stato. Diventa un altro momento, in tempi che di un Gaber avrebbero ancora e sempre bisogno, per immaginare, se non altro, un noi possibile.
Perché “non ci si può fidare dei cani sciolti”. Sapendo però, e Gaber ce lo ricorda ancora adesso, che bastano pochi versi perché il significato della stessa canzone si rovesci, agitando in un “noi” troppo facile lo spettro angoscioso e anestetizzante – che oggi conosciamo bene – del conformismo e dell’abdicazione al pensiero. E allora per fortuna che c’è il Gaber, e tra il Riccardo e i Soli, a raccontare ancora di Polli di allevamento e libertà obbligatorie.