Al festival dei Due Mondi ritorna l’opera con il capolavoro di Debussy. Il direttore d’orchestra ungherese Iván Fischer, che cura anche la regia, immerge l’orchestra in un bosco in un tutt’uno tra arte e natura. Ma la passionalità e il dramma suggeriti dalle note non si traducono in un’azione scenica altrettanto convincente
Peccato solo per il concerto inaugurale, annullato per un acquazzone che si è scatenato proprio quando Jakub Hrůša e i musicisti dell’orchestra di Santa Cecilia stavano per salire sul palco montato davanti al Duomo di Spoleto. Altrimenti sarebbe stato un perfetto fine settimana di apertura per il Festival dei Due Mondi, giunto alla sessantaseiesima edizione – la terza diretta da Monique Veaute – e che proseguirà fino al 9 luglio.
Passata la delusione per il Janáček mancato – l’attenzione era tutta per una Suite che il direttore ceco ha tratto dalla Piccola volpe astuta, con scene cantate dell’opera, che speriamo si possa recuperare in futuro –, la vera apertura è toccata quindi ai musicisti della Budapest Festival Orchestra, seconda super compagine in residenza a Spoleto oltre a Santa Cecilia, impegnati nel primo appuntamento di una raffinata rassegna di concerti da camera, tutta dedicata agli animali nella musica e intitolata “MusicAnimalia”.
Si comincia con Petruška di Stravinskij, dove il fil rouge zoologico in effetti è salvo perché nella quarta parte, “Festa popolare della settimana grassa”, tra balie, zingare, carrettieri e stallieri, c’è anche un orso. Pignolerie a parte, la trascrizione per ensemble di Yuval Shapiro funziona così bene e i professori della Budapest sono così bravi che non poteva esserci inizio migliore. Si prosegue con Il Carnevale degli animali di Saint-Saëns, pagina lapalissianamente adatta al tema della rassegna, e che dieci orchestrali suonano con un’elettricità e un mordente che sembra di ascoltare ancora Stravinskij.
Segno evidente dell’attenzione di Veaute per il dialogo tra le arti è un progetto scenico legato a Harawi, ciclo per soprano e pianoforte di Olivier Messiaen, in cui il compositore francese si accosta al mito di Tristano alleggerendo il dazio wagneriano di amore e morte con canti Inca e con un testo poetico parecchio surrealista di cui è lui stesso l’autore. Neanche a dirlo, il canto di uccelli è onnipresente, così come altri suoni di una natura ammaliante di cui nessuno sa restituire la simbologia segreta più del mistico Messiaen.
È la bella voce di Katrien Baert a interpretare questa complessa e rarissima raccolta, forse non il “grand soprano dramatique” di stampo wagneriano pensato da Messiaen, ma un’artista tecnicamente duttile, oltre che capace di gusto e intensità anche nei passaggi più estremi, dagli acuti improvvisi alle ripetizioni ossessive. Al pianoforte, la non meno abile Costanza Principe scioglie gli enigmi della parte con sensibilità e impressionante morbidezza, evitando scatti nevrotici che a volte la scrittura suggerirebbe.
La messa in scena è affidata a Silvia Costa, regista oggi molto richiesta all’estero, in particolare in Francia, dove ha una collaborazione stabile con l’ensemble artistique della Comédie de Valence. Costa viene da quindici anni di collaborazione con Romeo Castellucci, di cui si intravvede l’influenza nel suo lavoro: l’idea del teatro come mistero da rappresentare ma mai da risolvere. Per dare unità al ciclo la soluzione della regista è più simbolica che narrativa: Katrien Baert esplora a poco a poco lo spazio della chiesa sconsacrata di San Simone, con gesti rituali a volte suggestivi altre più didascalici. Cammina sulla sabbia che ricopre il pavimento, si macchia di sangue, poi monta sull’altare, gioca con una lapide dove sono sepolti “l’amour” e “la mort”, infine chiude “Dans le noir” con il volto circondato da un cerchio di luce, come un’aureola, riferimento forse alla religiosità di Messiaen, intesa però in senso più spirituale e astratto. Lo spettacolo viene ripreso ancora l’1 e il 2 luglio.
Non c’è dubbio che la notizia più importante sul Festival è il ritorno dell’opera. Grande attesa quindi per la nuova produzione di Pelléas et Mélisande di Claude Debussy con direzione di Iván Fischer, andata in scena al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, e attesa prossimamente a Budapest, Amburgo e Vicenza. Da alcuni anni Fischer pretende di essere il realizzatore unico delle opere che affronta con la Budapest, e di firmare quindi anche la regia – per trovare un precedente bisogna risalire forse a Karajan.
Come è prevedibile, Fischer vuole mettere al centro l’esecuzione musicale. Lo fa posizionando l’orchestra non in buca ma sul palcoscenico, e immergendola in un bosco – le scene sono di Andrea Tocchio – come a suggerire che la musica nel capolavoro di Debussy proviene direttamente dalla natura. Tutti i professori indossano una sorta di saio francescano, incluso Fischer, che cede al vezzo di aggiungerci qualche fogliolina per mimetizzarsi tra le fronde della sua foresta.
Pur travestito da cespuglio, quel che il direttore riesce a fare con la sua orchestra è impressionante, e scardina i cliché da manuale su questo capolavoro. Fischer immagina un Pelléas del tutto estraneo ai canoni del decadentismo. I motivi dell’opera, a torto chiamati conduttori perché non conducono da nessuna parte, e il più delle volte resi diafani e impalpabili come in un continuo sospiro impressionista, al contrario qui invischiano i personaggi in sonorità tutt’altro che delicate, ma corporee e sensuali, non per questo meno poetiche. Il divenire, quindi, è impedito più da una gravità che da una stereotipata levità di prassi.
Questa imprevedibile passionalità e forza drammatica ottenuta sul piano musicale viene però smorzata da quel che avviene sulla scena. Fischer, insieme a Marco Gandini, realizza uno spettacolo funzionale, ben fatto ma assai rinunciatario. L’azione si svolge in buona parte in proscenio davanti all’orchestra, dove i cantanti si trascinano gattonando tra gli arbusti, attenti a non urtare i professori. Altre volte sono posizionati dietro, su praticabili mobili che vanno su e giù affiorando dai rami. Staticità, gesti stereotipati, tutto un indicare morboso e un alludere prevedibile, con i cantanti che alla fine fanno come al solito, come il mestiere suggerisce. Poco si coglie del trauma di Mélisande, dell’esitante passionalità di Pelléas, di quella vera e propria metafisica dell’eros tracciata da Maeterlinck: forse ci si poteva pensare un po’ di più. Tra gli interpreti spicca il Golaud di Tassis Christoyannis, per il corpo del suo declamato. Elegante il Pelléas di Bernard Richter, bravissimo a sottolineare la candida ingenuità del protagonista, mentre è decisamente sopra le righe la Mélisande di Patricia Petibon, che con la mise scelta per lei da Anna Biagiotti, con parrucca vermiglia preraffaelita, pare uscita da un film di Tim Burton.
Foto di Andrea Veroni