Il grande romanzo della Resistenza autentica arriva in scena al Teatro Franco Parenti fino al 21 luglio (prodotto da NIdodiragno) con uno straordinario Stefano Annoni, per chiamare lo spettatore a diventarne parte
“Cosa ci importa di quelli che sono già eroi, che la coscienza ce l’hanno già. È la strada per arrivarci, che conta”. Portare in scena “Il sentiero dei nidi di ragno“, nella lunga stagione estiva del Teatro Franco Parenti, non è – soltanto – un esercizio di memoria. il passo dinoccolato del bambino Pin, di quello che Bolaño avrebbe chiamato “il giovane invecchiato”, è la voce che emerge per far fare a un Paese intero i conti non solamente con la propria storia ma, più ancora, con la propria identità. Un bambino (lo chiarirà poi, luminosamente, Elsa Morante) è l’unico sguardo possibile, ammetterà poi un maturo Italo Calvino, per liberarsi dall’esigenza del proprio alter ego e caricare il peso dell’epica che costruisce un paese sul volto più puro e senza pietà per adulti più fragili e sciocchi di lui. E per restituirla nella sua realtà, lontana tanto dalla retorica divinizzante di un esercito d’eroi, quanto dai tentativi di mistificazione, che a distanza di ormai troppi decenni cercano macchie di discredito destinate a cadere nel silenzio di testimoni che non ci sono più.
Stefano Annoni sembra consapevole che il mandato resti da raccogliere al corpo dell’artista, che – nella suggestiva scelta registica firmata Paolo Bignamini si mischia tra la gente e oggi come allora, come il capo di un distaccamento di soldati quasi per caso, chiama a prendere parte, ad essere anche oggi molto più che testimoni, spettatori inerti di chi agisce, fosse anche riempiendo una gavetta od osservando persino ciò che non dovrebbe vedere, come Pin, partigiano quasi per sbaglio dopo una scommessa. Dalle pagine rivivificate in scena del romanzo calviniano esce oggi la parola collettiva che ha bisogno di puntellare le radici su cui la Repubblica si regge, che hanno preso la forma di politica, di letteratura, persino di canzoni, musicate poi da Liberovici anni dopo e qui gridate con l’orgoglio di una dichiarazione d’intenti, sulle note squillanti della fisarmonica di Katerina Haidukova. Come è suo dovere, però, anche portando in scena la storia, l’arte sceglie di incarnare la vita, molto oltre l’ideologia. Nella poliedricità di un interprete in stato di grazia si evoca anche la memoria matura del dopo, dell’autore ormai simbolo che rilegge nella sua prima vera prova di scrittura lo spirito del tempo e il suo di uomo, tra il rimorso di non aver saputo dire abbastanza e l’urgenza civile di chi non avrebbe potuto sottrarsi al dovere del racconto.
Ma, prima di ogni altra cosa, quella che Annoni porta in scena e che Calvino voleva far esistere è una Resistenza complessa e individuale, sono le vite di tutti coloro che potrebbero dire, proprio con Calvino “non è detto che fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano”. Un manipolo di vite sbandate, tenute insieme più dall’istinto che dalla lucidità, dalla fame di ragazzi di essere dentro la storia più che dalla consapevolezza. Sono partigiani ma senza alcuna coscienza di classe e con forse una nebbia di ideale, sono meschini e traditori, in balia della paura e dall’ambizione, qualcuno sempre sul filo di farsi strumento del potere del più forte. Chi resta, però, crede e poi sa che ogni secondo della sua vita, compreso quello della loro morte, domani avrà radicato il mondo da consegnare a ogni “ragazza con le guance di pesca, ragazza con le guance d’aurora”, che ha oggi i vent’anni dei ragazzi d’allora. Di là del ponte, nel futuro a cui tutti i Pin e i loro compagni guardavano c’erano ragazzi da prender per mano, e che alla loro storia sul palco prestano le note e le parole che si incastrano alla voce di Pin come se fossero state scritte apposta. Per prenderli per mano, come il vecchio fa con il bambino, per raccontare non la favola cancellata da un mondo post apocalittico, ma la realtà sognata del loro mondo, dove non serve aver studiato Marx o avere i gradi dell’accademia militare, perché la “legge dell’avvenir” si misura sul quotidiano. L’uguaglianza ha l’odore della polvere antipulci finalmente condivisa per tutti, e la rivoluzione il sapore della libertà di uno stagnino di rischiare la vita per poter tornare, se sarà fortunato, a riparare le sue pentole come le vite.
E in ogni vita c’è spazio per le meschinità come per gli amori, traditori e disperati, che si colorano di un’ombra “Nera di malasorte che ammazza e passa oltre”, l’orrore non rinuncia alla poesia, e la verità che fa tornare Pin di nuovo solo ha il ritmo cadenzato di Dolcenera, dialogando con naturalezza con tutto il secolo e con l’uomo in generale. Lavori come questo, a margine della straordinaria qualità artistica, si rivelano così come una pratica viva di libertà, a cui guardare forse (lo suggeriva già l’autore) con il senso d’inferiorità di chi tuttavia, oggi, non può fare un alibi della distanza temporale, ed è chiamato piuttosto alla postura sbruffona dei monelli che non capiscono i grandi ma ne inchiodano tutte le debolezze. E – proprio per questo – vogliono ancora nutrire, nella mano di un amico che resta, un sogno “così splendido e vero da potervi ingannare”.