L’opera delle meraviglie di Francesco Cavalli riappare nella sua modernissima forza di seduzione riletta dal direttore d’orchestra Christophe Rousset, che lavora con consapevolezza storica sul cosiddetto ”antico”. A rifinire questa abbagliante visita seicentesca il regista David McVicar
“…Già la terra languente… chiede, febbricitante, alti soccorsi… Esalazioni e fumi mandano al cielo inariditi prati, e sfioriti, e schiomati vivono a pena i boschi. Or tocca a noi ch’avem del mondo e provvidenza e cura… risarcir Natura”. Cos’è? Un poeta fuori di testa al G20 di Roma sul riscaldamento globale? No, Venezia, novembre 1651: atto primo di La Calisto, opera delle meraviglie composta da Francesco Cavalli su libretto fantasmagorico di Giovanni Faustini, che andò in scena trecentosettant’anni fa nel piccolo Teatro di Sant’Apollinare e che riappare oggi in tutta la sua modernissima, irresistibile forza di seduzione alla Scala (30 ottobre, 2, 5, 10 e 13 novembre).
L’opera immagina Giove che scende dal cielo “per medicare la terra che arde”. La causa è il passaggio del carro infuocato di Fetonte, ma siamo liberi di immaginare quel che ci pare. Giove, caldo anche lui, si lascia accendere “dal fuoco dei rai” (e non solo) di Calisto, giovane seguace di Diana, che vive tra i boschi in cui fiumi e ruscelli si sono inariditi. Calisto (Chen Reiss, soprano di indifese delicatezze) è vergine e tale vuole restare, fedele alla sua dea, ma scopre che Giove (Luca Tittoto, basso di buona grana e giusta presenza), sceso dall’Olimpo per riaprire i tubi dell’acqua ma anche padre degli dei che “dovrebbe proteggere il virginal costume”, medita di “deflorar i corpi casti”. Giove è un noto traditore, lo sa bene sua moglie, Giunone, ed è anche un “libidinoso mago” che, ben consigliato da un maestro di inganni come Mercurio (Markus Werba, bel tenore e grande verve), non fatica ad aggirare le resistenze di Calisto: si traveste da Diana, mutando la sua voce di basso-baritono in una di soprano (Olga Bezsmertna, brillante nel doppio ruolo di vera e finta Diana), copre Calisto di baci e le fa provare un’estasi che la vergine non ha mai conosciuto.
Già, ma estasi al maschile o al femminile? A Cavalli, a Faustini e agli spettatori del teatro Sant’Apollinare di quel che assilla i guardiani del politicamente corretto non importava un bel niente. La Venezia del Seicento non aveva bisogno di leggi Zan per accettare, rispettare e corteggiare gli amori di ogni sesso. Il teatro cosiddetto barocco, aggettivo che in musica non vuol dire niente, esplodeva di libero arbitrio e non doveva aspettare alcuna codificata commedia degli equivoci per farci godere scene-chiave come quella in cui Calisto, convinta di essere stata baciata dalla sua dea, la ringrazia. Giusto in tempo per farsi replicare “quando mai ti avrei baciata?”, meritarsi la fama di “meretrice infame” e avviarsi a un ingiusto calvario.
L’opera di Cavalli corre a perdifiato per più due ore, padrona del suo e del nostro tempo, in un flusso di musica che le veloci arie non spezzano, perché le ripetizioni non esistono, i versi scorrono come le parole di un fluido discorso forgiato sulla naturalezza del “recitar cantando”, invenzione che la più grande scuola italiana di ogni tempo ha consegnato al piacer nostro ben prima che il Melodramma (“la lirica” delle anime perse) usasse le manette delle forme chiuse.
Né quel Seicento aveva da attendere la nascita dell’opera buffa per inventarsi nutrici con voce di maschio o personaggi simili a Linfea (bravissima Chiara Amarù), altra “arciera” di Diana che si libera del voto di castità e via via si trasforma da brutta anatroccola in famelica sexy: “…D’aver un consorte io son risoluta, voglio esser goduta”.
Quando entra in scena Giunone, (una altéra Véronique Gens in guaina nera da Malefica), ci si aspetta la resa dei conti. Ma nell’opera liberamente ispirata a Ovidio non è previsto che Giove paghi i suoi inganni sexy e che Calisto rimanga per sempre vittima ingannata. Per punire il marito, Giunone impone alla rivale un pelo d’orsa, ma la vittoria è breve. Giove sa come tenersi in eterno l’amante accanto: la farà ascendere con sé in Cielo, sconfiggendo la morte degli umani, e Calisto diventerà costellazione dell’Orsa maggiore, dopo aver dato alla luce un figlio del peccato, Arcade, da cui la mitica Arcadia. Fantasia al potere.
Il pubblico che ha riempito la Scala anche più del previsto per un’opera quasi sconosciuta, era pronto a un viaggio nell’insolito, ma quel che ha visto e sentito lo ha colto di sorpresa: dieci minuti di applausi sono un trionfo sotto ogni punto di vista.
C’è qualcosa che i maestri del teatro musicale cosiddetto “antico” non avessero già inventato? Quando la voce piccola di soprano, nel corpo piccolo del Satirino (Damiana Mizzi, deliziosa), tira i fili delle coppie segrete, svelate, desiderate, non ultimo quella di Diana ed Endimione, pastore che contempla il cielo con occhio da astronomo, e canta “Pazzi quei ch’in Amor credono? Pazzi son tutti gli uomini, Pazze son tutte le femmine”, è difficile non sentire già in bocca il dolceamaro di Mozart e da Ponte (Così fan tutte/tutti). E nell’introduzione strumentale al terzo e ultimo atto dell’opera, sembra di sognare ascoltando l’attacco di “Ombra mai fu”, aria sublime del Serse di Handel(1738).
Un’invenzione tutta di Cavalli o (anche) di Christophe Rousset, direttore, concertatore e molto riscrittore dei manoscritti rimasti? Anche qui, non importa: tutto quel si alza senza problemi di suono dal golfo mistico, grazie al calibrato mélange del gruppo misto formato dai Talens Lyriques di Rousset e dagli strumentisti della Scala, è nello spirito dell’opera secentesca aperta a tutto. Il canto è “sulla parola”, il tempo batte preciso e sollecito, accenti e dinamiche pulsano, il fraseggio cerca sempre la varietà d’espressione che la lingua italiana più creativa della storia chiede. E se volessimo usare il bilancino del farmacista, quei dieci minuti di applausi dovremmo attribuirli soprattutto a lui, Rousset, musicista esemplare delle più avvertite generazioni di interpreti che lavorano sul cosiddetto “antico” con consapevolezza storica. A tutti, comunque, il giusto merito per questa visita secentesca abbagliante. Al regista David McVicar, che col suo pool (Charles Edwards, scene; Doey Lüthi, costumi; Adam Silverman, luci; Jo Meredith, coreografie; Rob Vale, video) confeziona un altro dei suoi spettacoli altrettanto “storicamente consapevoli”, ambientato all’interno di un osservatorio a cupola ingombro di libri e di un grande cannocchiale puntato verso il cielo come l’occhio di Galileo (perché quel Seicento delle meraviglie era anche il tempo della scienza). Regia da applausi perché, senza esibizionismi e pruriti attualizzanti, ogni gesto, ogni danza, ogni pantomima esalta il tripudio di erotismo, di ambiguità, di passioni e di toccanti lirismi ch’è quest’opera rara.
La Calisto, “dramma per musica” di Francesco Cavalli su libretto di Giovanni Faustini: aggiungetela in neretto nelle Note di keep, perché lei sì può parlare ai ragazzi più di tanto retorico Ottocento e con migliori probabilità di tirarli a teatro.
Tutte le foto sono di Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala