Ecco cosa succede quando una scrittrice europea applica il suo sperimentalismo letterario agli stereotipi e ai personaggi di un genere tutto americano
Se un grande appassionato di western, categoria alla quale io – mio malgrado – non appartengo, leggesse Per poco non ci lascio le penne di Céline Minard, si troverebbe perfettamente a suo agio, colto dall’immediata sensazione che ogni cosa si trovi al suo posto e che non manchi niente. Anzi.
Tra indiani belligeranti e dai poteri sovrannaturali, pellegrinaggi e insolite carovane, malattie e scalpi, e persino prostitute innamorate e musiciste itineranti in grado di strappare al regno dei morti con cacofoniche strimpellate di violino, il romanzo è talmente ricco da risultare quasi ingestibile nella sua esuberanza.
Lo si legge d’un fiato, lanciati in una lettura sfrenata come la corsa di quei cavalli che passano di mano in mano, cambiando continuamente padroni e destinazione, lasciandosi alle spalle paesaggi sterminati e accampamenti improvvisati. Di capitolo in capitolo si ha la sensazione di perdersi tra i fili di queste storie che si intrecciano, ma l’autrice sa fin troppo bene ciò che fa; giocando con i numerosi cliché che il genere offre, costruisce una galleria di personaggi diversi tra loro ma uniti dall’etica del saloon, fatta di alcool abbondante e scarsa igiene, di sentimenti genuini nella brutalità del loro irrompere.
Gli indiani, a quanto ne sapeva lui, non avevano bisogno di molto. Qualche arma, munizioni, un po’ d’alcol con cui ubriacarsi nelle feste, utensili di metallo, prezioso o meno, falpalà. E i bianchi pure, anche se erano convinti del contrario. La maggior parte della gente voleva solo un po’ più di benessere, legna in inverno, dispense piene, un camino che tira e la certezza di essere migliori degli altri. Ma quello che i bianchi desideravano e temevano in egual misura, più di ogni altra cosa, eccetto quelli che erano diventati cacciatori e trafficanti di pelli e abitavano nelle tende insieme agli indiani, era il soffio della vita selvaggia, cruda, spietata, senza freni. La bramavano almeno quanto la detestavano.
E così, con le dita sempre nell’ atto di sfiorare il calcio della pistola, qualcuno fugge, qualcun altro grida vendetta – il sentimento western per antonomasia – tutti si trascinano alle spalle un passato tragico che in un modo o nell’altro finisce per venire a galla. Le vicende si distribuiscono, come vuole la tradizione, in un climax ascendente nel ritmo narrativo, fino all’exploit finale che fa rimpiangere la perdita della variopinta compagnia.
Numerosi gli episodi e le singole scene che si potrebbero citare pescando tra le pagine; nessuno però riuscirebbe a essere rappresentativo del respiro del romanzo nel suo insieme. Perché Per poco non ci lascio le penne non si può raccontare: è un viaggio che attinge a piene mani ai topoi di un genere che ha fatto storia per renderlo il perno di un testo talmente sui generis da essere di difficile collocazione nel panorama letterario contemporaneo e, proprio per questo, da portare in esso una ventata d’aria fresca.
Del resto lo sperimentalismo letterario, sempre improntato alla ricerca di orizzonti nuovi, sembra essere il filo conduttore della narrativa di Céline Minard, ex libraia con all’attivo ben sette libri prima di quello che, grazie a 66thand2nd, l’ha introdotta in Italia. Un rapido excursus attraverso le sue opere precedenti (dall’«epopea post-apocalittica» Le dernier monde alle gesta medievali di Bastard battle per arrivare all’erotico fantasy So longue, Luise) non può che aiutarci a comprendere meglio con che genere di autrice abbiamo a che fare – di quelle che scelgono di consacrare alla scrittura due mesi in tenda sulle Alpi, per intenderci – e a quale ricco repertorio narrativo si spera che questo romanzo spiani la strada in terra nostrana.
“Per poco non ci lascio le penne” di Céline Minard (66thand2nd, pp.245, 18 euro, ebook 8,99)
Foto: Cowboys in south Orange County, Photo courtesy Orange County Archives