In un’Italia del Nord dura e notturna, il 29enne Suranga D. Katugampala, regista cingalese di nascita ma appieno nostro concittadino, anche cinematograficamente, ambienta il suo primo film, un efficace e ben recitato duetto: quello tra Sunita (Kaushalya Fernando, vera star nel suo paese), che si sfinisce ogni giorno come badante da una signora disperata, e il figlio 17enne, scontroso e un po’ bullo (lo interpreta Julian Wijesekara), che rifiuta la scuola, la famiglia e ogni legame con le origini
Non è facile vedere un’opera prima così riuscita, equilibrata in fase di scrittura e messa in immagini, recitazione e ricostruzione ambientale, come Per un figlio: il film, che uscirà nel circuito indie italiano, un po’ a macchia di Leopardo (a Milano sarà al Cinema Beltrade, in programmazione continuata, dal 30 marzo) segna il debutto a 29 anni di Suranga D. Katugampala, giovane regista-sceneggiatore nato in Sri Lanka ed emigrato a 10 anni con la famiglia in Italia, fino a diventare oggi (ma solo da pochi mesi, per le nostre arretratissime leggi) un veronese (città dove ha ambientato la sua storia) a tutti gli effetti.
Gran merito va certamente all’ottima Kaushalya Fernando, attrice tra le più apprezzate del suo paese (ha vinto con La terre abbandonè la Camera d’Or a Cannes 2009), che guida qui un cast con molti giovanissimi protagonisti, interpretando il ruolo centrale di Sunita: è una signora cingalese di mezza età che si spezza la schiena ogni giorno assistendo, come badante, un’anziana non autosufficiente, emblema non solo dell’incapacità fisica di gestire il proprio corpo e la propria esistenza, ma anche della disperazione di una vecchiaia abbandonata a se stessa, da figli e parenti che fingono di credere di assolvere i loro doveri affettivi depositando sul tavolo dell’anticamera la spesa settimanale.
Sunita nel suo rifiuto di imparare davvero l’italiano segnala una ben più vasta incertezza all’idea di mettere radici in un posto che non riesce a sentire suo. Ma ha un altro, e anche maggiore “problema”, e anche gioia, ma solo per pochi, rari momenti, un figlio adolescente, che forse intenzionalmente nel film non ha un nome, perché è Il Figlio in assoluto, ostile a qualsiasi legame con la sua famiglia, la cultura e la terra da cui proviene, che ha abbracciato una vita da perfetto e un po’ odioso teenager occidentale di provincia, schiavo della tecnologia, bullo e a volte violento, perfettamente a suo agio tra coetanei tutti e solo dal forte accento veneto: è questo è il suo modo di integrarsi nel paese dove è approdato, tanto quanto lo è lavorare fino allo sfinimento per gli altri quello della madre.
Il ragazzo, cui dà volto il 17enne Julian Wijesekara, lui pure nato in Sri Lanka ma in Italia da quando ne aveva 7, è anni alle prese, come i suoi amici, col rifiuto della scuola e il mondo degli adulti, e con le non piccole difficoltà della crescita, sessuale e non solo, tema assolutamente chiave della sua età.
Per un figlio diventa così una storia pienamente a due caratteri che si attraggono per ragioni di natura ma si respingono perché il salto generazionale è ancora più grande se sommato alla condizione migratoria. E l’abilità di Suranga è anche quella di camminare sul filo della distanza delle culture, delle età e dei mondi, in un’Italia del Nord buia, notturna, non descritta come luogo solo respingente ma che non nasconde la sua povertà di sentimenti. Mentre il lontanissimo Sri Lanka si manifesta qui negli spezzoni di credenze arcaiche, rassicuranti forse ma chiaramente inutili nel nuovo contesto.
Una cosa molto interessante di Per un figlio, prodotto da Antonio Augugliaro – co-regista di Io sto con la sposa – e premiato con la menzione speciale della Giuria all’ultimo Festival di Pesaro, che si tratta di un film stilisticamente molto italiano, nonostante un direttore della fotografia e alcuni tecnici srilankesi, tra l’altro arrivati un po’ rocambolescamente in Italia per la lavorazione: ricorda, anche per la collocazione geografica (forse solo un po’ meno noir) le pitture d’ambiente di Carlo Mazzacurati e per la sua forte e indifesa protagonista Io solo Lì di Andrea Segre.
Un cinema umanista, attento alle vere fatiche del vivere, sociologico nel senso più nobile del termine. Per un film in parte improvvisato sul set, seguendo le inclinazioni degli interpreti, che non nasconde l’interesse quasi documentario ma sa essere toccante, diretto come lo è la fiction più e sentita, meglio scritta. Realizzato in una sorta di crowfunding di fatto, cresciuto grazie a tante persone: un progetto che ha richiesto tre anni per essere completato, il cui esito mostra di meritare questo lungo impegno.
Per un figlio, di Suranga D. Katugampala, con Julian Wijesekara