Arriva Perfidia, prima regia di Bonifacio Angius, premiato a Locarno dalla giuria dei giovani. Un duro racconto sui nostri giorni privi di lavoro e speranze
Lo schermo è nero. La voce fuori campo è giovane, impaziente. Sta parlando con Gesù, gli si rivolge con un tono rancoroso e impotente, da bambino deluso. Un bambino a cui è morta la mamma. Questo lo scopriamo non appena il buio lascia il posto alla luce e sullo schermo appaiono le prime immagini di Perfidia di Bonifacio Angius.
Un funerale. È morta una donna, moglie di Peppino Manunta e madre di Angelino, che a dispetto del diminutivo non è affatto un bambino. Nient’altro ci viene detto di lei. Anche dei due uomini sappiamo poco inizialmente. Fra i 30 e i 40 anni il figlio, fra i 60 e i 70 il padre, li vediamo condividere il lutto ingollando in fretta un bicchierino di grappa. Li scopriamo ben presto estranei, incapaci di parlarsi, refrattari ad ogni sentimento. Due adulti che vivono insieme e non si conoscono. Che non sono nemmeno più una famiglia, ora che hanno perso la figura femminile che li teneva uniti.
Ma quanti anni hai? chiede il padre ad Angelino, come se solo in quel momento si rendesse conto dell’abisso di apatia in cui è scivolato quell’unico figlio che ha smesso di studiare e non ha mai iniziato a lavorare, e passa le sue giornate a ciondolare fra piazze deserte e bar affollati di varia e tetra umanità. Cos’è che ti piace? Perché non ti cerchi un lavoro? E le donne, ti piacciono le donne? Tutta la rabbiosa energia del padre si esprime in una raffica di domande inutili, arrivate fuori tempo massimo, nel tentativo di costringere il figlio a trovarsi un’occupazione qualsiasi, prima che sia troppo tardi.
Naturalmente, è già troppo tardi. Quel lavoro che per la generazione dei padri era necessità economica, bisogno di mantenere la famiglia, ma anche e soprattutto una questione di ruolo, un’affermazione di identità sociale e politica, per la generazione dei figli semplicemente non esiste. Di lavoro ce n’è sempre meno, e sono radicalmente cambiate aspettative e orizzonti.
Smarrito il senso del dovere, cancellate speranze ed entusiasmi, azzerato persino il desiderio, quel che resta è uno spazio vuoto dove uomini e donne galleggiano, in perenne attesa di qualcosa che non potrà arrivare mai, tra sguardi spenti e dialoghi futili. Un’afasia intellettuale e morale che di certo non riguarda solo la famiglia Manunta. I personaggi di questo film inquieto e suggestivo sono tutti ugualmente afasici, privi di passioni e soprattutto di aspirazioni. Ovunque vadano, Angelino e Peppino si trovano in mezzo a una terra desolata, dove violenza e cinismo si intrecciano con ignoranza, fatalità, indifferenza. Siamo alla periferia di Sassari, in inverno, ma potremmo essere ovunque.
In una delle scene più forti del film l’indolente Angelino, che sembra alla ricerca di un amore in grado di colorare di senso la sua vita, corteggia goffamente una graziosa studentessa e finisce col rivolgerle la stessa domanda che suo padre gli aveva fatto pochi giorni prima: Ma cos’è che ti piace? E la ragazza nemmeno capisce di cosa sta parlando. Il centro del racconto è proprio questo: ben prima della crisi economica, del lavoro scomparso, della paura del futuro o dello scontro fra generazioni, il cuore nero che questo film sa cogliere con acutezza è il venire meno della capacità di desiderare, immaginare, l’inaridirsi di ogni fonte di senso.
Perfidia, passato al Festival di Locarno, uscito a Milano e Roma a dicembre e presto nelle sale di molte altre città, è l’ottimo debutto nel lungometraggio di Bonifacio Angius, 32 anni, produttore (e ora regista) sassarese, capace di immedesimarsi con il suo protagonista per poi allargare lo sguardo e costruire una parabola di notevole forza drammatica.