Una regia, quella di Robert Carsen, mirabile, una direzione d’orchestra, quella di Simone Young, trascinante e un cast all’altezza per un ‘Peter Grimes’ che non si dimentica. L’opera di Britten che interroga l’ambiguità del suo protagonista – vittima di una comunità che lo condanna a priori o responsabile della morte dei suoi mozzi? – applaudita alla Scala
In un borgo inglese chiamato Borgo (The Borough), sulla costa orientale affacciata al Mare del Nord, una sera maledetta torna in porto la barca di Peter Grimes vuota di pesci e orfana del giovane mozzo, morto di stenti. La gente del Borgo conosce Grimes, pescatore che sa il fatto suo, forte, capace, ci mancherebbe, ma duro come un hooligan, che tratta gli aiutanti con violenza che mette paura. E violenza vuol dire tutto, sospetti compresi.
Nella sala del municipio gli si fa un processo per stabilire i fatti: l’ha ucciso? è solo un incidente? La gente del Borgo urla cattiva come in curva, vuole Grimes punito, ma non ci sono prove. L’avvocato Swallow, notabile del posto, apre le braccia: il processo si affloscia in un ammonimento e nel divieto di prendersi un altro assistente. Ma come faccio? replica Grimes. Una persona sola prende le sue difese, Ellen Orford, la maestra del villaggio non per caso: ha cultura cervello e cuore. Ed è vedova. Peter vorrebbe sposarla, ma non prima di aver fatto fortuna. Perché la gente del Borgo, grida Peter, ha una sola cosa in testa, i soldi. Se non li hai, non conti niente.
Caccia allo straniero
Peter vive da solo in una baracca sulla scogliera, fuori dall’abitato, lontano dagli amati concittadini, che lo sentono straniero e hanno già deciso di farne il capro espiatorio delle loro pochezze e malignità. Ellen si offre di andare a prendere all’orfanatrofio un ragazzo, John, come nuovo aiutante. Concesso, ma quando il giovane arriva, Peter lo mette subito sotto, deve scendere in mare subito. Ellen soffre per tutti e due, se ne prende cura. Una domenica mattina cerca di consolare John, che ha già segni di violenza sul corpo. Ma Peter lo vuole ancora: deve correre dietro un banco di pesci che ha visto solo lui. Ma è domenica! Un giorno di riposo glielo devi, protesta Ellen. No, grida Peter. Quel banco mi scappa e può farmi guadagnare bene.
Tra la brava gente del posto si aggira anche l’orrenda Mrs. Sedley, impegnata a origliare e a raccogliere prove contro Grimes. Una ne trova: il maglione strappato di John, raccolto sulla riva dopo due giorni che né Peter né il ragazzo si sono visti. È successo qualcosa? Sì, il nuovo mozzo è scomparso in mare. Ancora morte. Grimes è alla disperazione. Anche chi sta con lui si arrende: Ellen piange il fallimento di due vite e Balstrode invita Grimes, anzi gl’impone di andare al largo con la barca e di consegnarsi al mare. Troppo dolore ancora da vivere.
Fino all’ultimo respiro
La storia è ambientata nel primo Ottocento. Ma l’opera che oggi ce la ripropone in uno spettacolo che toglie il respiro, regia mirabile di Robert Carsen (alla Scala il 21, 24, 27, 30 ottobre e il 2 novembre) è un capolavoro del teatro musicale che Benjamin Britten scrisse nell’ultimo anno di guerra (1944). Nel racconto in versi che Britten prese come soggetto – The Borough di George Crabbe, un curato inglese nato ad Aldeborough (dove Britten fondò un festival quasi leggendario), caritatevole sostegno di persone delle quali condivideva fatiche e sofferenze -, Peter Grimes è davvero colpevole dei due omicidi, compiuti forse non per dolo, ma per colpa grave sì. Nell’opera di Britten, sul libretto di Montagu Slater, Peter Grimes è invece un essere tormentato, affamato di rivincita, un diverso emarginato dal “gruppo”. Un innocente oppresso dai disvalori della collettività.
Se esistesse una scuola di regia, il Peter Grimes firmato da Carsen sarebbe l’esempio perfetto per mostrare di che cosa sia fatto il teatro, di quale materia la regia: non scene decorative e costumi eleganti (spoglie le prime, come si conviene a un villaggio, abiti “normali” i secondi, di Gideon Davey), ma cantanti che pensano, personaggi che vivono, spazi che si animano e si svuotano ascoltando la musica (c’è anche una coreografia dietro a tutto questo, di Rebecca Howell).
Lo spettacolo nuovo che Robert Carsen ha creato alla Scala è di forza irresistibile perché, in tre semplici pareti di legno scuro, (la sala del municipio, la taverna, la piazza, la capanna), racconta il destino di una sentenza già scritta dalla “gente”. Avesse avuto twitter, facebook o tik-tok, il Borgo si sarebbe liberato di Grimes più alla svelta, senza bisogno di processi, di prove, di contraddittorio, di verità.
Carsen da applausi
Nell’evidenza della sua lettura, che più attuale non si può, lo spettacolo di Robert Carsen finisce esattamente come inizia: svanite le onde che lo annegano in un filmato astratto in bianco e grigio, Grimes è alla sbarra, nel processo, mentre giura di dire la verità. È la replica muta dell’immagine con cui l’opera si è aperta. Intelligente? No, geniale. Ha mai sbagliato qualcosa quest’uomo?
Sarebbe senza fine il diario delle scene, degli squarci, dei dettagli che le luci (di Carsen e Peter Van Praet) incidono nella memoria. Oltre al finale, ne bastano due: Ellen che si commuove insieme al ragazzo mentre in fondo, laggiù, la comunità recita false preghiere sulla musica “religiosa” di Britten; il quartetto femminile dell’atto secondo, che canta in un angolo il ruolo gregario recitato dalle donne nell’Ottocento (e non solo), soprattutto nelle realtà crudeli del mare e della povertà.
L’impresa sarebbe compiuta a metà (forse oltre), se non concorresse una parte musicale altrettanto trascinante. Merito di un cast che ha in Brandon Jovanovich (Peter) e Nicole Car (Ellen) due protagonisti che nel canto e nel gesto (lei soprattutto) arrivano al cuore dei personaggi, immersi in una compagnia come-si-deve (in vista lo Swallow di Michael Colvin, il capitano Balstrode di Ólafur Sigurdarson, la Mrs. Sedley di Natascha Petrinsky), circondati da un coro (preparato da Alberto Malazzi con il consueto scrupolo stilistico) che recita e si muove fuso con i mimi.
Merito soprattutto di Simone Young, direttrice che già nel concerto sinfonico della settimana, con la Turangalîla-Symphonie di Messiaen, ha dimostrato di avere testa e polso per governare con sapere ed esperienza i linguaggi del Novecento.
Mare, mare
Si deve anche a lei, Simone Young, se Carsen ha potuto permettersi di ambientare Peter Grimes in interni, senza materializzare il mare (che nelle opere di Britten, vissuto nel Suffolk, c’è sempre, ma proprio sempre), senza “citare” visivamente l’acqua (se non per vaghezze video), lasciando alla musica, agli impagabili interludi d’orchestra, il compito di farcela entrare nelle ossa, di farla traspirare dal legno delle pareti.
Spettacolo di scuola anglosassone (in linea con quello di Richard Jones, stagione 2011- 2012), che tiene alta la qualità di Peter Grimes alla Scala, peraltro difficile da tradire con una musica scritta come Britten sapeva.
Foto: Brescia e Amisano@Teatro alla Scala