Verso il Salone del Libro di Torino: una scrittrice che legge una scrittrice che descrive una (giovane) scrittrice… Ovvero, dopo essersi, a nove anni, innamorata di Jo rileggere adesso ‘Piccole donne’ per scoprire che l’eroina per le donne e per le donne che scrivono è un’altra…
Jo March: Piccole donne l’ho riletto per lei. Volevo capire se davvero ho cominciato a scrivere, e se continuo a farlo, per colpa sua. Ora il problema è che, se buttate “Jo March” in pasto a Google, conterete a mucchi le giornaliste, scrittrici e blogger che dichiarano: “volevo essere Jo March”. Il rischio che questo contributo corre è il vieto stereotipo. Rischio altissimo. Ma tant’è, l’impegno con Cultweek è preso, tocca gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Della Jo March letta a nove anni ho un bellissimo ricordo. Coraggiosa, intraprendente, anticonformista e brillante. All’epoca, lei era senz’altro la ragazzina che avrei voluto diventare. Per trasformarmi nell’arcibuona Beth, mi mancava non solo la pratica quotidiana del sacrificio, ma proprio il fisico, nella foto di classe ritrovandomi sempre nella fila di fondo, alta e corpulenta quanto il più robusto dei maschi.
Amy la vedevo come un tipino vanesio, e sciocca o vanitosa non ho mai voluto esserlo (con quale successo, non saprei dire).
Quanto a Meg, Meg era troppo: troppo grande, troppo donna, una vicemamma. Impossibile quindi che fosse lei ad instradarmi su un percorso che, nell’età di «Heidi» e «Candy Candy», neppure intuivo.
Jo, dunque. Jo era perfetta. Jo c’est moi, avrei detto alla maestra, se la maestra mi avesse spiegato chi sono Madame Bovary e Flaubert. E Jo c’est moi ho pensato fino a qualche settimana fa, quando ho affrontato di nuovo Piccole donne». Scoprendo le seguenti cose.
Primo: Beth è di una timidezza border line. Beth ha un rapporto francamente patologico con le bambole. Beth è sì arcibuona, ma di una bontà sospetta. Fa pensare al cane che, sul punto di essere sopraffatto, smette ogni aggressività e porge il collo all’avversario. Mordimi. E l’altro, frustrato, schiumante di rabbia, mica morde.
Ora, il collo offerto ai canini dell’antagonista non è bontà: è tattica. Nella migliore delle ipotesi, resistenza passiva. Beth March, timorosa di tutto, terrorizzata da una parola pronunciata a voce troppo alta, fronteggia il mondo mostrando la giugulare.
Secondo: Meg non è una donnina. È una ragazza che si affaccia all’età adulta con la malagrazia di chi è appena arrivato. Manca niente che faccia scappare a gambe levate l’uomo che ama.
Terzo: Amy, la piccola di casa, non è superficiale come la ricordavo. Diciamo che va per tentativi, povera anima, e fatica a trovare se stessa tra personalità tanto definite. Cioè, anche, opprimenti.
Quarto e ultimo: Jo sarà anche tutto cuore (taglia i bellissimi capelli per aiutare la famiglia), ma quasi ammazza la sorellina importuna. Si mette di traverso ostacolando i progetti matrimoniali di Meg. Rifiuta di crescere con pervicacia capricciosa. Jo March è Peter Pan con l’impaccio della crinolina, e il sacrificio della chioma è un modo come un altro per allontanare da sé lo spettro incombente della Femmina Adulta, cioè sessuata.
Insomma, passati quasi quarant’anni dalla prima lettura, mi sono trovata tra le mani un altro libro. Piccole donne non è più quel Piccole donne, ma un testo carico di ambiguità, ombre, complicazioni. Ambivalenze che, a nove anni, ovviamente non percepivo. Il che non significa che non sapessi leggere. Significa che Piccole Donne non è liquidabile come vecchio romanzetto benintenzionato per brave bambine, ma è un dispositivo letterario che sprigiona senso, a nove anni come a quarantasette, e lo fa dal 1869. Un Classico, insomma. Non “Classico per l’infanzia”, Classico Classico.
Finisce qui? Non proprio. Letta/riletta la storia della sorelle March; avvertito in molti passaggi il pulsare pertubante di un non-detto; annusato, sotto ogni pistolotto educativo, un lieve sentore di zolfo, mi sono innamorata dell’autrice.
Cercate in Rete, leggete la bella nota introduttiva di Daniela Daniele all’edizione Einaudi. Scoprirete che Mrs. Alcott aveva un padre idealista e pasticcione; che le piaceva intrattenersi con la meglio gioventù dell’epoca; che scontava, come tutte, il pregiudizio di essere femmina in un mondo di scrittori maschi; che, probabilmente, somigliava alla Jo che ricordate anche voi: coraggiosa, intraprendente, anticonformista e brillante. E certo era sgobbona, versatile, creativa, ma anche assai concreta. E a quel punto potrebbe capitarvi di pensare quello che ho pensato io: no, grazie, non voglio più essere Jo March. Voglio essere Louise May Alcott.