Nel libro autobiografico “Non si può mai stare tranquilli” Pier Luigi Pizzi, scenografo e regista di chiara fama, mette nero su bianco sotto la cura attenta di Mattia Palma un patrimonio inestimabile di esperienze e ritratti
Siamo bipolari anche sul tempo che scorre e la vita che passa. Bianco o nero, sì o no, uno o zero. Da una parte inneggiamo alla velocità, però maledicendo le intelligenze (?) che ci minacciano la panchina ancora prima di giocare. Dall’altra indulgiamo nella consolazione di quanti anni la vita prometta e che le generazioni precedenti nemmeno sognavano. Allora, decidiamoci: ansia da prestazione o “grandi opportunità”? Intanto, un esercito di novantenni ci guarda negli occhi e dobbiamo arrenderci all’ammirazione di tante vite vissute a lungo, molto a lungo, con quasi insaziabile voracità.
Pier Luigi Pizzi, classe 1930, compleanno il 15 giugno, architetto di formazione, scenografo e regista che merita il nome di Maestro, è uno di quei novantenni. Lavora come prima e più di prima, ha vissuto di bellezza e nella bellezza, vanta un patrimonio inestimabile di esperienze e di ritratti che ha riversato in un libro autobiografico (Edt, a cura di Mattia Palma, che ne ha raccolto le testimonianze), esemplare per understatement, verità ed eleganza.
Non si può mai stare tranquilli, dice il titolo: disincantata formula che Pizzi gioca così, per commentare le sorprese e i capovolgimenti di fronte, i piccoli e grandi giochi della vita che l’hanno colto di sorpresa, nel bene e nel male. Soprattutto nei rapporti con i colleghi di quella falda sismica chiamata teatro (“Incontri di vita e di teatro”, conferma il sottotitolo).
Per un’autobiografia si può usare il metodo del riassunto, scritto da me ma le cose le dice lui, l’autore. Nel caso di Pier Luigi Pizzi, maestro anche nell’arte del racconto, meglio la formula del florilegio: non si scrive meglio quel che è già scritto bene.
Inizi. Il primo approcciodi Pier Luigi Pizzi con il teatro avviene con due titoli eccentrici: Ubu Roi di Jarrry e Le Mamelles de Tirésias di Apollinaire, insieme a gruppo di giovani teatranti non professionisti, che Paolo Grassi però nota e invita per recite del mattino al Piccolo Teatro di Milano. Il primo impegno professionale è del 1951, con Pene d’amor perdute di Shakespeare al Piccolo Teatro di Genova. E qui la scelta di vita si mescola al dramma familiare. «Per mio padre il teatro non rappresentava un lavoro serio. La mia decisione lo indignò come se gli avessi annunciato di essere stato assunto in un circo per ammaestrare pulci. Troncammo i rapporti, fu doloroso per tutti. La sua era una posizione comprensibile, ma in quel momento per me fu durissimo affrontare i disagi del trovarsi fuori casa senza mezzi, lasciando alle spalle una condizione di vita senza preoccupazioni». La sera, Pier Luigi Pizzi riempie in fretta una valigia, lascia la posizione di “sdraiato” (che forse non fu mai sua) e diventa un giovane precario che deve giocarsi tutto da zero. Tutto diverso, oggi, vero?
Prima di Semiramide a Aix-en-Provence: Pier Luigi Pizzi, Marilyn Horne, Monserrat Caballé, Jesus Lopez-Cobos
Stile, linguaggio. Una fama accompagna Pier Luigi Pizzi come una sentenza passata in giudicato: quella dello scenografo impareggiabile, di inventiva e finezza che si può solo inseguire, come Verstappen, e del regista “di tradizione”, prudente nelle scelte, tendenzialmente figurativo.
Il manifesto estetico di Pier Luigi Pizzi racconta cose diverse. «Sulla scena il teatro deve essere allusione, finzione, simbolismi. Non realismo, che non mi ha mai attratto, perché rischia di banalizzare, o peggio di volgarizzare anche i più giusti propositi per renderli più accessibili. Il naturalismo spinto all’eccesso è sempre pericoloso».
«Il mio stile si riassume in quattro principi: logica, estetica, rigore, ironia. Imprescindibile la perfetta organizzazione dello spazio, in rapporto e nel rispetto dell’opera da rappresentare. La mia è una ricerca costante della bellezza, dell’armonia e soprattutto dell’impegno a trasmettere emozione». Più chiaro di così.
«É normale che una scenografia e dei costumi giusti vengano apprezzati anche per l’eleganza. Si è spesso usato questo aggettivo, “pulito”, in riferimento al mio lavoro. Non che mi dispiaccia, dal momento che ho sempre cercato di evitare qualunque sospetto di volgarità, ma a volte mi sarei aspettato giudizi meno sbrigativi. Dare per scontato che la conquista del bello sia la mia sola prerogativa mi suona riduttivo, come un’etichetta. Ma ho da tempo deciso di non farci più caso». Un vero signore.
La lista delle eccezioni e delle effrazioni alla stanca liturgia del teatro d’opera è lunga e inizia presto. Nel 1970 nascono i famosi Vespri siciliani “risorgimentali”, Verdi storico ambientato nell’Ottocento, tanto tempo prima delle (ora normali) trasposizioni cronologiche. «Non avevo alcuna intenzione di ambientare la storia nel Medioevo con armature e alabarde», proclama il Pizzi che dovrebbe essere fedelissimo alle ambientazioni di libretto. Lo spettacolo fa discutere, forse apre una via che ancora battiamo, e Fedele D’Amico prende le difese scrivendo di un “Mazzini tra i fichi d’India”.
Amici e piccoli segreti. Il libro è anche una galleria di aneddoti in punta di forchetta tra i quali è curioso scoprire di Alberto Arbasino, infallibile censore di retorica e birignao, una vena platealmente melodrammatica. Un giorno scopre il tradimento di Luigi Bazzoni, suo colpo di fulmine, e si taglia le vene. «Ancora lontano dal successo dell’Anonimo lombardo – annota Pizzi -, Alberto amava già le luci della ribalta. Questa sceneggiata si replicò poco dopo in circostanze analoghe, con tagli più superficiali. A quel punto noi amici cercammo con ironia di dissuaderlo dal ripetersi ogni volta, altrimenti tanto valeva farsi cucire una cerniera lampo sui polsi». Pizzi su Arbasino in stile Arbasino.
Colleghi, registi, artisti
Giorgio De Lullo. «Rigore puntiglioso e talvolta maniacale…. Durante le prove estenuanti di D’amore si muore, la povera Elsa Albani dovette ripetere per ore a Umberto Orsini: “Tu chi sei, carino?”, senza mai trovare l’intonazione giusta e le intenzioni che Giorgio pretendeva come sottotesto». Crisi di pianto, malori, solo ore dopo l’affranta primadonna riesce a dire la battuta come De Lullo voleva. Commento: «Ho sempre pensato che il rigore di Giorgio non fosse dissimile al mio».
Visconti. «L’inizio della mia carriera, come del resto quella di chiunque si affacciasse alla professione in quel periodo, fu segnato dalla figura di Luchino Visconti, da cui tutti abbiamo imparato qualcosa. Aveva due anni meno di mio padre. Alla fine degli anni Quaranta, quando ero studente di architettura a Milano, era già un mito». Ma… «si prendeva terribilmente sul serio, con l’aggravante di una totale mancanza di ironia. Poteva essere aggressivo, arrogante e talvolta crudele, perfino con gli amici più intimi. Lo fu anche con Zeffirelli, che pure aveva diviso con lui il lavoro e il tetto di Via Salaria. Non che Franco fosse poi tanto diverso, dal momento che non esitò a osteggiarmi quando decise che l’avevo tradito per lavorare con De Lullo. Insomma dietro a una cortina di cordiale convivenza, eravamo tutti insidiati nella stessa giungla».
Fellini. «Federico aveva enormi qualità intellettuali, ma umanamente era cinico e bugiardo. Gran seduttore: ”Marcellino” (Mastroianni, ndr). “Giuliettina”, “Pigino”, ma alla fine pensava solo a sé stesso, non guardava in faccia a nessuno».
La Scala. Tra i grandi sovrintendenti della Scala ce n’è uno ancora ammantato di leggenda, Antonio Ghiringhelli. Forse perché pochi o nessuno c’era, allora. Ma Pizzi sì. E non son rose e fiori. La Scala di Ghiringhelli era un teatro freddo e conformista, per non dire cupo e inospitale. Il sovrintendente si aggirava per i corridoi con l’aria di chi teme di essere aggredito. Ogni volta che si cominciava a discutere un nuovo progetto, sembravano tutti prodighi di apprezzamenti, salvo poi trattarti con distacco e diffidenza non appena firmavi il contratto, quasi seccati di averti tra i piedi».
Per fortuna c’erano musicisti come Gianandrea Gavazzeni, gran signore e pensatore, insieme al quale nasce, nel 1964 con la regia di De Lullo, una storica Cenerentola con Giulietta Simionato. E Claudio Abbado, per una Lucia di Lammermoor (1967) in cui sfumati tagli di luce fanno dire ancora a Gavazzeni di un allestimento “turneriano”. E Antonino Votto, nel cui Ernani del 1969, Pizzi “lavora” materiali poveri alla Burri. A proposito di luoghi comuni.
La svolta più importante avviene nel 1978, quando, «il giorno prima del Nabucco con Ronconi e Muti al Maggio, ho debuttato come regista a Torino nel Don Giovanni». Anche in questo caso spettacolo essenziale, «una reazione all’eccesso di idee di Nabucco”. Il grande scenografo, che tutti cercano, che tutti vogliono, prende in mano le redini e non le lascia più.
Danza. «Alla scala da bambino rimasi incantato dal Lago dei cigni. Il fatto che un giovane principe si innamorasse di un cigno mi trasportava nel mondo dei sogni. Da allora identificai il balletto con la parte più magica del teatro”.
Roma, Parigi. “Alla cena che Visconti diede in onore di Marlene Dietrich c’eravamo tutti. Assediata, fu adorabile con chiunque e riuscì appena a mangiare una foglia di lattuga per quanto le stavamo addosso, Ma già le cene successive in suo onore furono vistosamente disertate: “Ancora?”, si chiedevano tutti. Questa è Roma. Al contrario, a Parigi, se sai guadagnarti le giuste attenzioni, senti il piacere che hanno di adottarti, non solo per una sera, e diventi parte del giro».
Con Marilyn Horne
Politica, tessere. «Ancora una volta Ennio Flaiano aveva ragione quando diceva che la situazione politica in Italia è grave ma non è seria. Sarà anche per questa condivisione che mi sono tenuto alla larga da quel mondo. All’inizio della carriera, con i primi successi, sono stato corteggiato da politici di ogni schieramento. Ma non ho mai voluto rinunciare e compiere le mie scelte di vita e di lavoro, senza dovere mai niente a nessuno. Non avendo tessere di partito, ho avuto rare occasioni di incontrare personaggi del mondo politico. Quando poi successo, è stato solo per ragioni legate alla professione». Quanti possono scriverlo nero su bianco?
L’uomo. «A tavola sono morigerato. Quando sono solo, piatto unico, niente carne, quasi mai vino. Come capita a chi vive a lungo, nel tempo ho cambiato abitudini. Mi piace la buona cucina, ma sono gourmet, non gourmand, buongustaio, non ghiottone».
I viaggi in oriente «sono stati una mia consuetudine per anni e mi hanno messo in contatto con dottrine di cui ho subìto il fascino… Un giorno stavo attraversando un momento di crisi per eccesso di lavoro, e sentivo di essere sull’orlo di una depressione». Un giovane attore del Nicaragua conosciuto sul set di Che gioia vivere! con Alain Delon, apre a Pier Luigi Pizzi la chiave della meditazione e poi scompare. «Per anni ho continuato a seguire il suo insegnamento, finché, non so come, altri pensieri mi hanno distolto da quell’abitudine salutare che purtroppo non ho più ritrovato. É un episodio mancante della mia vita, un incontro mistico sorprendente per me, dato il mio rapporto vago con la religione».
Scelte di vita. «Da anni ormai mi godo una serena e beata castità, concedendomi il platonico, innocente appagamento visivo verso la bellezza in tutte le sue espressioni e forme. Per un innato senso estetico, non posso rinunciarvi, senza distinzioni di sessi. Le donne mi sono sempre piaciute e ne ho avute senza ansia di prestazione. Dell’universo maschile mi affascina ciò che caratterizza la gioventù: bellezza, vigore, spensieratezza, incoscienza, allegria. Non sopporto la volgarità in alcuna forma o contesto. Trovo che gli abusi e la violenza verso le donne, come la crudeltà verso gli esseri più fragili siano crimini gravissimi, così come considerare la virilità una circostanza attenuante nel giudizio contro la prepotenza».
E dopo? Un incidente aereo in Africa, un rischio sventato per miracolo, e Pizzi intravvede la Signora. «È curioso – riflette – come si dimentica la paura che ti prende quando senti la fine. Non so dire se in quel momento abbia provato un vero senso di terrore. Quando penso alla morte spero di non sentirla arrivare. So che esiste e che mi sta aspettando: venga pure quando sarà il momento, ma non mi faccia soffrire».
Lista d’attesa, ma… Con elegante candore, Pier Luigi Pizzi si mette accanto a Natalia Aspesi e Liliana Segre nel drappello dei superstiti in lista d’attesa. «Ma non mi pare giusto congedarmi in tono malinconico. Il sentimentalismo patetico non mi appartiene. Preferisco continuare a battermi, a restare in trincea. É curiosa la sensazione del sopravvissuto che, ancora in piena attività, firma contratti per gli anni a venire come se niente fosse, come se avesse davanti l’eternità. Comunque ho ancora tante opere da interrogare, e intendo farlo aspettando nuove risposte. Il cielo può attendere».
Pier Luigi Pizzi, l’arte di vivere.
In copertina: lettura del Barbiere di Siviglia al Rossini Opera Festival del 2018