Un’immersione nella carriera del grande Piergiorgio Branzi, a partire da una mostra alla Leica Galerie di Milano. «Non avevo niente da dire con la fotografia»…
Dopo il diario punk di Stanley Greene, le rockstar di Jim Marshall e la grande storia della fotografia americana di Life, questa volta alla Leica Galerie di Milano si torna a eleganza ed equilibrio italiani con 30 fotografie in bianco e nero di Piergiorgio Branzi (Signa, 1928). Per la stagione estiva la mostra, inaugurata lo scorso 30 giugno, sarà disponibile fino a settembre, dando tutto il tempo per vederla: si intitola Flâneur, termine d’uso baudeleriano che indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, immergendosi nei luoghi e provando emozioni nell’osservare il paesaggio. L’identikit corrisponde: Branzi in queste immagini è immerso tra le vie del meridione, di Parigi, nei neri esasperati e nei bianchi dei muri del mediterraneo e della neve moscovita.
Il buon Branzi, studente di giurisprudenza poco convinto, si dà alla fotografia dopo una folgorazione che ha colpito molti altri colleghi: quella del maestro Henri Cartier-Bresson. Era il 1953 a Firenze, città dove Branzi, nato in provincia e terzo di sette fratelli, si trasferisce durante l’infanzia. Branzi ha già incontrato la fotografia sfogliando le pagine de l’Illustration française, ma la mostra del fotografo altrettanto francese a Palazzo Strozzi lo spinge ad acquistare la prima macchina fotografica. Prime cavie, visto l’ambiente bacchettone in cui si trova Branzi, che non gli permette di proporsi a ragazze di altre famiglie, sono necessariamente le sue tre sorelle: peccato che il padre, molto cattolico, dia il veto alla pubblicazione di quelle foto. Oltre alle sorelle, le nature morte, contro cui nessuno può forse porre divieto.
Alla Leica Galerie c’è una delle foto di Branzi più conosciute, Muro nero: la dominante è il nero, colore del muro e della cappa di un camino che pare una bottiglia e al cui interno è infilato un ragazzino con la pelle bianchissima, o almeno, così sembra per il contrasto. È Andrea, uno dei fratelli Branzi, che accettò di posare per lui in cambio di un paio di coni gelato. Il muro nero rivela tutta la sua materia, una delle ossessioni della fotografia di Branzi, insieme alla forma, in un concetto di perfezione tutt’altro che asettico.
Un’impronta che arriva dal suo essere e sentirsi fiorentino, che porta alla «necessità del disegno, più che del colore». Una fotografia che apre la stagione della foto nera. Tutte le immagini in mostra ricalcano in generale la ricerca quasi ossessiva della composizione, che siano dominate dal nero o dal bianco, colori che accosta sapientemente, ma che non mescola, volendo distaccarsi da quella tradizionale scala di grigi che per lui aveva già fatto il suo tempo. Giacomelli era della sua stessa scuola, un espressionismo dai «toni definitivamente neri e bianchi bucati».
I muri e la loro materia vengono indagati da Branzi, e quest’ultima prende talmente il sopravvento da far diventare a volte l’immagine «informale»: la fotografia scattata a Parigi nel 1954 ricorda gli studi di graffiti fatti a partire dagli anni ’30 da Brassaï, altra importante influenza per il fotografo. Branzi in quegli anni viaggia per il sud Italia insieme al futuro cognato a bordo di una motocicletta, ricavandone dei reportage con una vocazione già giornalistica, ma con un intento di ricerca molto personale, e dei ritratti “ambientati” di cui diventa maestro. Branzi vuole che nei ritratti, da volti e atteggiamenti, emergano i caratteri.
Viaggia ancora con la macchina fotografica e poi si lascia affascinare dal cinema. Gira qualche documentario che gli permette nel 1960, l’anno delle Olimpiadi di Roma, di diventare “giornalista-reporter” per la Rai, ricalcando la figura del giornalista contemporaneo tuttofare: Enzo Biagi lo spedisce a Mosca e ne fa il primo reporter occidentale in Unione Sovietica, dal 1962 al 1966. Lì Branzi, oltre a girare immagini per il telegiornale, scatta in barba ai divieti oltre tremila fotografie – molte delle quali meravigliose – «appunti personali» che svilupperà e rivedrà soltanto 25 anni dopo, ricavandone il Diario Moscovita . Tra le sue influenze anche quei fotografi di Life che avevamo già visto alla Leica, da Walker Evans a Margaret Bourke-White, forse non per caso.
Tornato dalla Russia Branzi continua a dedicarsi al giornalismo e abbandona la fotografia per circa 30 anni, che a pensarci e a riguardare i frutti della sua produzione ci si chiede come sia stato possibile. Eppure, ha confessato in un’intervista, «Non avevo niente da dire con la fotografia». Forse aveva già detto tanto prima, con quelle immagini che parlano ancora adesso e non stancano mai lo sguardo.
Flâneur – Piergiorgio Branzi @ Leica Galerie Milano, fino al 12 settembre 2015, Ingresso gratuito
Foto: Burano. Piazza Grande, 1954 ©Piergiorgio Branzi – Courtesy Contrasto Galleria Milano