Piero Fogliati. Ermeneutica sbilenca di un sognatore attivo


In Arte

Ad Arzignano, in provincia di Vicenza, un’antica tipografia di famiglia diventa Atipografia e si trasforma in uno spazio espositivo dedicato all’arte contemporanea, che ospita fino al 14 settembre “La città fantastica”, mostra personale di Piero Fogliati. Straordinario artista piemontese scomparso nel 2016, Fogliati fu inventore di macchinari fantastici dall’impressionante potenziale percettivo e immaginifico, con uno slancio utopico attivo popolato di “presenze estetiche” che vogliono uscire dallo spazio abituale del cittadino, cinico e violento, per aprire degli squarci verso un possibile mondo altro.

Ripenso a quei bitorzoli verdi, come quelli disegnati da un bambino e la sua idea un po’ troppo astratta di natura. Ci sono gli uccelli, gli alberi, le nuvole, le colline di un luridissimo verde. E poi degli stranissimi tubi… Se solo la vita fosse così dannatamente splendida!

In effetti quel disegno pieno di gobbe ritrae un luogo che contro ogni aspettativa esiste veramente, il Monferrato, e quel presunto fanciullo sognatore si chiama in realtà Piero Fogliati e ha 76 anni al tempo dell’esecuzione di quello schizzo – o anzi – di quella “fissazione”, come avrebbe preferito chiamarla lui adoperando un idioletto allucinato. Quegli strani tubi, invece, il progetto utopico per una umanità presumibilmente alternativa: un dispositivo tecnologico atto ad amplificare i suoni, da realizzare rigorosamente non a grandezza d’uomo, bensì “a misura collinare”.

Piero Fogliati, Suoni misteriosi, 2006, tecnica mista su carta cm 38 x 44

E’ forse il ricordo vitale di queste colline, come un motore nascosto, ad animare per tutta la vita il desiderio irrequieto di Fogliati, anche quando, come nella più tristemente nota delle storie, si sposterà da quella campagna che lo aveva cresciuto (o da quel rimasuglio), alla Torino del dopoguerra, la città conquistata dalle industrie e dai loro respiri di smog, assuefatta dalla smania di costruire il futuro. Ma Il suo, anche tra i fumi di un sogno appannato e confuso, rimane lo sguardo placido di chi nasce pittore, quello allenato al rispetto dei silenzi, all’osservazione delle più timide vibrazioni della luce, all’ascolto dei più lievi fruscii e occasionalmente, certo, al rombo di qualche trattore. 
La città si rivela di una violenza estrema per chi, come lui, è abituato a cogliere i micro movimenti del paesaggio: gli spazi sono conquistati incessantemente dai rumori delle macchine e la visione rincuorante di quegli spazi aperti e bitorzoluti è sostituita da una gamma infinita di metalli pesanti e materiali alieni che uccidono lo sguardo.

Veduta della mostra La citta fantastica di Piero Fogliati da Atipografia

Precisamente calate in questo grigiore diffuso le opere di Fogliati cessano di essere dei sogni innocui e si caricano invece di uno slancio utopico attivo: sono “presenze estetiche” che vogliono uscire dallo spazio abituale del cittadino, cinico e violento, per aprire degli squarci verso un possibile mondo altro – un mondo che presumibilmente, non è quello reificato degli oggetti, pesanti e insopportabili, ma un mondo leggero e impalpabile, dove la pioggia può essere colorata se illuminata da una macchina (Prisma meccanico, 1992), e dove questa stessa luce, se manipolata, può diventare solida (Luce solida, 1971) o, ancora, venire rifratta nei suoi infiniti colori dal movimento di un gigantesco elastico (Rivelatore cromocinetico, 1984). La sua è la ricerca di quella che non riesco a definire se non come “materia sottile”, un altrove immateriale e magnifico situato esattamente ai limiti delle leggi fisiche, il cui accesso è lasciato alla responsabilità dello spettatore – sempre attivo, sempre partecipe – lasciato nelle mani fanciulle della sua stessa curiosità. 


Piero Fogliati, Prisma meccanico, visita di una scolaresca

Se sono tutti gli anni Sessanta a ripudiare l’opera-oggetto e la sua infausta ombra mercantile per chiamare in gioco la partecipazione dello spettatore, il caso di Fogliati, tra questi, spicca come il più bello degli ossimori. Esuberanti macchinari, rottami di ferro, motori, corrente elettrica: sono le stesse modalità tecnologiche del mondo capitalizzato, passate al vaglio della fantasia, a svelare una possibilità di emancipazione collettiva. Una volta svincolata dal dominio dell’utile, la Scienza diventa uno strumento di Gioco per tastare i limiti del Reale e la Tecnica si apre a nuove forme in libertà, sfondando nel regime dell’estetica. È allora l’industria stessa, quando mantiene in sé i tratti dell’immaginazione, a contenere i germi di una redenzione futura. Più che di arte visiva, dunque, le opere di Fogliati hanno a che vedere con il tessuto del reale, quello che le leggi della fisica tentano di erigere a linguaggio, ma che solo i nodi primigeni della sensorialità sanno toccare. Per questo le sue opere sono più simili a situazioni da vivere, e meno a oggetti stanziali da museo. Anzi, quando qualcuno dà troppo peso all’apparato tecnico che apre questi squarci estetici, e non alla meraviglia percettiva, Fogliati si infervora.



Piero Fogliati, Macchina che respira, 1990, complesso meccanico a motore elettrico, cilindro comprimente/aspirante, auricolari, cm 35x100x70. Esito: tenue respiro della macchina-arte

Il vero capolavoro esposto in mostra è di quando Fogliati, in una fase più matura, scende a patti con la materialità dell’opera e, a quelle macchine rivelatrici, dona persino una autocoscienza masturbatoria. In macchina che respira (1990) ci avviciniamo cautamente a un marchingegno metallico in moto dotato di un suo inspiegabilmente rincuorante criterio formale, afferriamo quella sorta di tubo stetoscopico che si protende dal suo ingombro, porgiamo questo tubo molle all’ingresso dei nostri pertugi uditivi e quello che sentiamo non sono cigolii, ma il respiro affannato di un anziano, faticoso e dolorante, come quello di qualcuno senza troppa autonomia residua o evidentemente attaccato ad un polmone di acciaio.
L’esperienza pneumatica mi inquieta decisamente lasciandomi per qualche minuto con i muscoli facciali bloccati su un’espressione di perplessità mista a spaesamento. Poi, sbloccati i muscoli, rimugino e mi chiedo quale fosse la provenienza di quell’affanno meccanico. E se anche la macchina, come quei fruscii, come quei ronzii dei bitorzoli verdi, si muovesse assieme al paesaggio? E se anche anche l’energia della macchina appartenesse a quella stessa vita segreta?

Piero Fogliati, Prisma meccanico, 1992, proiettore e schermo rotante a disco, dimensioni variabili.
Esito: scissione cromatica, volume 1,8 dm3

La postura di Fogliati, di fronte all’evidenza di un mondo conquistato dai ritmi non-umani della macchina, è ben lontana da quella di un romanticismo nostalgico e spaventato, incapace di accettare il cambiamento di un’epoca. È piuttosto simile a un terzo futurismo stabile e riuscito: nato dallo studio della luce, come i suoi fotoni rimbalzato a quello del movimento e, infine, concretizzato nella fiducia per la macchina come il luogo extra-artistico dove reindirizzare questa energia eccedente. Per questa stessa fiducia, forse, di lavoro continuava a fare il benzinaio.

Accostandosi naturalmente a una mitologia del tutto nuova e moderna, quelle delle macchine celibi, Fogliati si avvicina alla nozione di “ambientalismo” – parola che all’epoca, neanche era stata inventata e a cui qualcuno accosta Fogliati come antesignano – e, ancora più sorprendentemente, a quella più recente di “antropocene”, ovvero a quella di un’epoca geologica dall’orizzonte ibrido, senza distinzione valoriale tra Tecnica e Natura, segnata dalla consapevolezza dell’impatto dell’azione umana sul pianeta che agisce essa stessa come una forza tellurica.

Piero Fogliati, Rivelatore cromocinetico, 1984, proiettore, fune elastica, dimensioni variabili.
Esito: colori da movimento, supercie 4dm2

Piero Fogliati, che chiamiamo artista per comodità, ma che potremmo chiamare urbanista, pittore, architetto, poeta, amatore di colline (…) insegna che cosa significhi avere il coraggio di rendere un’idea reale, di desistere al regime consolatorio del Sogno. Perché, al di fuori dei limiti di un foglio da disegno, una visione inciampa nei gangli dolenti del tessuto sociale, e se riesce a spezzarne i nodi, come una terapia d’urto, attiva la chance di dare una forma più sana all’organo vivo del futuro.

La città fantastica. Una mostra personale di Piero Fogliati, Atipografia, Arzignano, Vicenza, fino al 14 settembre 2024

In copertina: Piero Fogliati nel suo studio con Euritmia Evoluente nel 2011

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