In questo dialogo con Pietro Grossi entriamo nel suo laboratorio di scrittura fatto di ordine e follia e maestri americani
“Funziono se mi diverto, e mi diverto se mi sorprendo.” Con questa semplice ma efficace massima Pietro Grossi, scrittore fiorentino classe ’78, autore di racconti e romanzi di successo, (Pugni e Incanto per intenderci) sintetizza il suo rapporto con la scrittura. Una consapevolezza – racconta – che si è fatta ancora più evidente nella stesura della sua nuova raccolta: L’uomo nell’armadio e altri due racconti che non capisco (Mondadori). Qui nella sua Firenze, seduto in un bar di una Piazza Santa Maria Novella deserta e bruciata dal sole, Pietro confessa, senza mezzi termini, che nello scrivere queste storie è accaduta una cosa che non succedeva da anni.
“Mi sono divertito come un matto.” sbotta Pietro con il suo inconfondibile ed amabile accento toscano. Se non fosse per quegli occhiali a goccia che tiene per tutta la conversazione (“Lo so che è maleducazione, ma la luce mi dà troppo fastidio”), sarebbe come trovarsi di fronte agli occhi entusiasti di un ragazzino alle prese con il racconto di una piccola avventura.
“Dopo ‘Incanto’ che è stata una delle esperienze di scrittura più intense della mia vita, mi ero allontanato dal piacere della scrittura. In questi racconti invece mi sono lasciato completamente andare, ed in un certo senso sono stati liberatori”.
Una dichiarazione che dopo la lettura di questo lavoro appare assolutamente onesta. Perché L’uomo nell’armadio ed altri due racconti che non capisco è un viaggio appassionante e spassoso che rivela una grande felicità di scrittura. Certo che per chi ha amato Pugni ed i suoi eroi, il primo impatto potrebbe essere abbastanza brutale. Uno sgabello che nella hall di un aeroporto vortica incessantemente su stesso, e che lentamente magnetizza l’attenzione di tutto il paese. Un ragazzo alquanto bizzarro con la mania d’incidere la superficie delle cose con un bisturi. Ed infine una stramba e tenera storia d’amore dove l’imprevisto e l’improbabile irrompono nella realtà spazzandone via tutte le angosce e fantasmi. Tre storie assolutamente surreali. Niente di più distante dalle atmosfere polverose ed epiche di Pugni. Quindi l’unico consiglio per chi storce il naso di fronte a tanta diversità, è fidarsi e fare un po’ come il suo autore: lasciarsi andare. Il divertimento è garantito.
Lasciarsi andare: è questo il primo impatto che Grossi ha con la materia primordiale dei suoi racconti e romanzi. “Quando scrivo voglio staccare il cervello. Se mi metto a pensare a come costruire le frasi, a quello che succede è la fine.” Scrivere di getto significa questo dunque, dare libero sfogo all’istinto e a ciò che nasconde l’inconscio ma non solo. Perché, nel bel mezzo di questo processo creativo, felicemente sragionato ed impulsivo, si inserisce già un minimo di controllo e di razionalità. Il risultato di una delle grandi lezioni che Grossi ha imparato da Hemingway leggendo le sue interviste ed in particolare il Principio dell’Iceberg. “Ogni tanto senti di essere davanti ad una storia che ti trascina, che ti descrive bene e ti verrebbe voglia di continuare, di andare dritto finché puoi. Invece ad un certo punto ti devi fermare. Se tu sei partito a scrivere qualcosa per cui sentivi urgenza devi stare attento a non esaurirla, perché se quell’urgenza la esaurisci, a ricaricarla ci vogliono mesi. Ed uno scrittore senza questo senso di urgenza è uno scrittore morto. Paradossalmente devo smettere quando questa urgenza la sento e comincio a divertirmi. È un po’ come continuare a stare sulla cresta dell’onda”. Così conclusa la prima stesura, in un periodo relativamente breve comincia la seconda fase, quella della riscrittura. “È la parte più impegnativa e razionale e che mi occupa più tempo. Inizio a pensare a come costruire le frasi ed ascoltare i pareri delle persone di cui mi fido.”
Istinto ed impulso. Ordine e controllo. Sono questi dunque i poli estremi attorno a cui ruota il lavoro di Grossi. Dalla prima alla seconda stesura, come ha spiegato, il salto è netto. Ma istinto ed ordine sono altrettante sfaccettature della sua persona. Tutta la mia vita fuori dai libri e dalla carta è un continuo tentativo di controllare l’incontrollabile ed allo stesso tempo di abbandonarsi all’incontrollabile – spiega Pietro – C’è una parte libera dalla forma ed una invece ossessionata dall’ordine, dalla misura.” Uno status dell’anima, o della psiche o di qualsiasi cosa sia, che trova la sua perfetta sintesi e rappresentazione in quella prigione di follia, che è la città in cui Grossi ha passato uno degli più belli della sua vita. “Manhattan, un caos di perfezione. La perfetta simbiosi tra ordine e follia. Forse è questo uno dei motivi per cui io sono felice a New York, quest’isoletta assurda dove tutto è estremamente caotico e straordinariamente preciso. Le strade sono tutte a 90 gradi poi all’interno c’è la follia più assoluta.”
E così discutendo di ordine e follia, e della giusta combinazione tra queste forze contrapposte, diventa naturale parlare di Teo. Il protagonista di Bisturi, il racconto centrale della raccolta. Pietro è così gentile da svelarci i segreti di questa storia, conducendoci direttamente dietro le quinte della sua genesi ed in particolare dentro la sua camera da letto, dove per alcune notti un tormento fisico non gli ha fatto chiudere occhio. “Ero sotto una cura fortissima di cortisone per un dolore alla schiena. Il cortisone è una sostanza dopante. Per cui ero un po’ scombinato, felicemente scombinato.” E via ad elencare i sintomi di questo sconquassamento fisico ed interiore. “Dormivo tre ore a notte, sudavo come un cinghiale, mangiavo sei volte al giorno, e pur essendo bloccato a letto ero pieno di energie. Così passavo la maggior parte del tempo a seguire gli esercizi di un corso di disegno che t’insegna a vedere il mondo in due dimensioni.” Poi ad un certo punto la svolta. “Mi sono immaginato questo ragazzo che incide la superficie delle cose con un trincetto, mi è venuta in mente la frase iniziale. E’ da lì che sono partito.”
E se l’idea del racconto più bello della raccolta nasce da una situazione un po’ estrema, la sua stesura ha proseguito per mesi in un clima di lavoro ordinario e d’incessante e meticolosa riscrittura. La scommessa creativa di Bisturi infatti era molto alta. “Si trattava di una situazione inverosimile in un contesto assolutamente verosimile. Tecnicamente la sfida più grande era mantenere alta fino alla fine la sospensione dell’incredulità.” Una sfida che Grossi ha vinto sfornando un racconto tanto strampalato quanto credibile. Un racconto che raggiunge il suo apice nei dialoghi finali, magistralmente riusciti ed in grado di esplodere un senso dell’assurdo che per tutta la narrazione rimane come assopito e contenuto. D’altronde per chi ha letto Grossi sa bene che i dialoghi sono il suo forte. Ma non chiedetegli da chi ha imparato. La risposta non la conosce nemmeno lui. “Sono la parte più istintiva della scrittura. È questione di orecchio, o c’è l’hai o non c’è l’hai. Mentre puoi imparare a scrivere un buon periodo, un capitolo equilibrato, lo stesso discorso non vale per il dialogo.”
Ma ovviamente i maestri non mancano. Hemingway, McCarthy, De Lillo, Pynchon sono alcuni degli autori che ammira di più. Ma tra questi un posto di rilievo e preferenziale è occupato da un altro americano, Philiph Roth. “La sua vita è molto istruttiva, e con il suo approccio alla scrittura mi sento molto in sintonia.” Spiega Pietro che stasera presenterà al pubblico di Firenze, attraverso una lettura commentata, una delle opere che più lo hanno segnato come lettore e scrittore. “Pastorale Americana è stata una delle letture più importanti della mia vita. Perché ci sono molte cose in cui mi sono riconosciuto ma soprattutto anche per motivi freddamente, prettamente tecnici. Nei confronti di chi quotidianamente affronta il problema della scrittura, Pastorale Americana mostra soluzioni straordinarie.”
Immagine di copertina: Flavia Veronesi © ITACAfreelance