Arriva al Piccolo l’atteso Pinocchio di Antonio Latella: il regista si riconferma come uno dei più grandi, anche se non tutto funziona alla perfezione
Bisogna dirlo. Di registi come Antonio Latella in Italia ce ne sono pochi. Non si tratta di farsi impressionare dai premi vinti – l’ultimo Ubu risale solo a qualche settimana fa con Santa Estasi –, né dalla recente e prestigiosa investitura a direttore del settore teatro della Biennale di Venezia, ma, assistendo ai suoi spettacoli, si intuisce una capacità fuori dal comune nel saper interpretare e mettere in scena un’opera. E viene da dire “qualsiasi opera”: che si tratti di un classico del passato (vedi alla voce Shakespeare e oltre) o della modernità (il bel Natale in casa Cupiello in scena a Torino fino a domenica scorsa), Latella agisce sul testo come un vero e proprio autore dovrebbe fare, senza temere cioè di mettere mano a forma e perfino a trama o contenuti.
Ciò che conta non è infatti il sussiego alla tradizione ma ri-animare la materia, far vivere la scena e suscitare nello spettatore riflessione e attenzione, costi quel che costi. Non è un caso dunque se il suo teatro (non estraneo alla lezione brechtiana) si avvale spesso di soluzioni scomode, talvolta perfino esacerbanti: attori che urlano, rottura della quarta parete, meccanismi scenici esibiti, indicazioni paratestuali e di regia che entrano a pieno titolo nella drammaturgia e così via. Latella è un provocatore programmatico, di quelli capaci tanto di mettere in fuga gli odiosi benpensanti, quanto di attrarre, a una diversa latitudine della regione borghese del pubblico, le simpatie di frivoli anticonformisti. Ma è anche uno che sa, con stupefacente disinvoltura e abilità tutta postmoderna, fondere alto e basso, sublime e kitsch in spettacoli che hanno sempre qualcosa di interessante da mostrare allo spettatore, quand’anche non risultino riusciti del tutto.
È, in un certo senso, il caso di Pinocchio, prima produzione che il Piccolo Teatro “regala” al regista proprio nel suo cinquantesimo anno di età e che Latella sceglie di affrontare in chiave simbolico-psicanalitica. Tanto che le avventure del burattino, ben lontane dalle rassicuranti tinte pastello disneyane, assumono i connotati di una storia di formazione ambigua, alla maniera dell’Alice di Lewis Carroll: un viaggio picaresco nel subconscio in compagnia di personaggi evanescenti ed enigmatici. Lucignolo è dunque una voce interiore, una “luccicanza” luciferina a cui prestare orecchio; il grillo una razionalità a singhiozzo da schiacciare a martellate; Geppetto e la Fata Turchina proiezioni di un egoismo genitoriale da sconfessare come in un complesso di Edipo: insomma ad accompagnare il lagnoso Pinocchio c’è una carrellata di presenze che fanno emergere quesiti più che risposte, menzogne più che verità.
Ecco allora che anche l’incessante “fame” del protagonista di legno – argomento ricorrente nello spettacolo come nel libro di Lorenzini, il cui padre era cuoco! – si può leggere come un appetito di conoscenza destinato a rimanere frustrato: l’unico boccone di “verità” concesso è infatti quello amaro dell’incertezza, che il burattino si conquista, una volta diventato ragazzo, in un tetro finale di sciatto realismo.
Per rappresentare tutto ciò, Latella s’inventa una scena “sofisticatamente d’antan e pauperistica”, dove aleggia l’atmosfera del “fare teatro come lo si faceva un tempo”, certificata dalla presenza di un rumorista, di vecchie macchine del tuono e del vento, e dall’utilizzo di maschere della commedia dell’arte. In realtà è solo un trucco, una menzogna (una delle tante dello spettacolo), tesa ad accentuare l’effetto straniante dell’attualizzazione latelliana, in cui il Pinocchio, interpretato da un infaticabile Christian La Rosa, strepita come un adolescente, si concede un monologo di parolacce, viene impiccato e perfino sodomizzato all’ombra di un enorme tronco di legno (che da naso si fa virilità). E se in diversi momenti il rigore con cui Latella applica la propria visione alla narrazione e alla materia scenica rimanda per qualità e meticolosità al genio ronconiano (si pensi alla ricerca lessicale e fonatoria che Latella opera sulle battute o alla sorprendente trovata di far nevicare trucioli), nelle tre ore e mezzo che compongono lo spettacolo non tutto funziona a meraviglia.
Diverse le lungaggini da attenuare – a onor del vero pare che di replica in replica il minutaggio complessivo stia diminuendo drasticamente; diverse le concessioni didascaliche al testo (vedi il sermone sulla maternità della Fata Turchina); infine più di una volta si ricorre a soluzioni sceniche che risultano più di mestiere che di genio (su tutte: il rave del paese dei balocchi che rimanda a un’estetica convenzionale piuttosto spiccia). Sbavature che abitano soprattutto la seconda parte dello spettacolo, quella cioè dove la narrazione lineare viene destrutturata per lasciare maggior spazio all’estro interpretativo. Come se, nell’entusiasmo di edificare questo ambizioso complesso spettacolare, ci si fosse dimenticati di togliere qualche impalcatura, qualche ridondanza architettonica e di stile. Del resto nel caso di Latella spesso la progettazione conta quanto il risultato scenico: un principio che se incontra la comprensione e il favore della critica, non sempre trova nel pubblico un giudice altrettanto benevolo. Una fruibilità tortuosa, direbbe il grillo, è il prezzo da pagare per la virtù.
Foto di Brunella Giolivo
Pinocchio di Antonio Latella. Fino al 12 febbraio al Piccolo Teatro Strehler