Un grande cast, dall’umanissimo Geppetto di Roberto Benigni al burattino del giovane Federico Ielapi, da Rocco Papaleo a Gigi Proietti, per una rilettura senza sorprese del classico di Carlo Collodi. Che esalta le capacità di affabulatore del regista, ne riconferma le qualità immaginifiche, ma non sfugge a un eccesso filologico. Rendendo il racconto affascinante da vedere ma un po’ piatto, senza riletture
Se il Natale è anche la festa degli occhi, perché le luci, i colori, le immagini fantastiche e la magia ci riempiono i giorni cancellando la realtà per seguire il sogno, ebbene allora Pinocchio di Matteo Garrone è un film di Natale. Credo che nessuno in Italia abbia la capacità di Garrone di maneggiare così bene la materia fiabesca, lo abbiamo visto nel Racconto dei racconti, ma anche nei suoi film più immersi nella realtà c’è questa capacità di costruire un immaginario fantastico. Umani che somigliano ad animali, animali che si comportano come esseri umani, paesaggi fatati e macchine stupefacenti. Intendiamoci, la fiaba per Garrone non ha niente a che vedere con le rassicuranti favolette. Spesso è cupa, a volte ansiotica e brutale. Ma resta una festa per gli occhi, una sorpresa assicurata per la capacità del regista di maneggiare le invenzioni.
Però nel caso del Pinocchio in uscita questo giovedì, lo stupore si arresta alle immagini. Per il resto, di sorprese ce ne sono ben poche. Garrone ha scelto di seguire pedissequamente il libro di Carlo Collodi, quasi scena per scena, e questo non ha pagato. La lettura degli eventi è piatta, stranamente poco emozionante. Non c’è una seconda lettura, non ci sono diversi livelli di comprensioni, che è poi la grande forza di tutti i film, pensate a quelli della Pixar, che oggi vogliono raccontare una storia ai bambini, parlando anche agli adulti. A tratti il racconto è persino un filo noioso. Senza arrivare agli eccessi del signore seduto accanto a me che ha dormito per almeno la metà del film (pranzo pesante, notte in bianco, senescenza precoce?), ci sono momenti dimenticabili, non perché non sia tutto sempre bellissimo e curatissimo, ma perché manca di passione.
Ed è un peccato, perché le forze in campo sono molte. A partire dagli attori. In testa a tutti Roberto Benigni, che riesce a infondere mille sfumature nel suo personaggio. Lacero e gramo, il suo Geppetto riesce a trasformarsi in un umanissimo eroe. Il suo bisogno di vincere la solitudine, di colmare il vuoto creato dalla miseria lo rende amorevole nei confronti di questo strano figliolo. È disposto a tutto, di ogni abnegazione pur di essere padre. Geppetto ama incondizionatamente il suo bambino burattino, tanto da seguirlo in capo al mondo e sempre in letizia, senza mai un vero rimprovero. Ci sono anche Massimo Ceccherini, volpissima volpe che interpreta a meraviglia, insieme a Rocco Papaleo nei panni del Gatto. Poi Gigi Proietti, che pare sia venuto al mondo proprio per fare Mangiafuoco, anche se il suo cameo è fin troppo breve. E ovviamente Federico Ielapi, un bravo Pinocchio, che tutti i giorni ha sopportato ore di trucco per ottenere un aspetto credibile, senza l’aiuto degli effetti speciali.
E poi c’è il paesaggio. Garrone ci mostra un’Italia mesta e insieme splendente, sostenuto dalla fotografia di Nikolaj Bruel. Paesaggi a volte lugubri, orizzonti lontani, case abbandonate, arredi polverosi, ma anche campi dorati colline verdeggianti e paesi che paiono presepi. Peccato che in questo scenario bellissimo i protagonisti si muovono in lungo e in largo in un affannarsi che difficilmente scalda il cuore. Il risultato è quello di un film che alla grazia di immagini perfette affianca un racconto a tratti legnoso quasi quanto la materia di cui è fatto il suo eroe principale.
Pinocchio, di Matteo Garrone, con Roberto Benigni, Federico Ielapi, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Gigi Proietti