In “Pitza e datteri” di Faribor Kamkari, farsa un po’ sgangherata e dal cast pittoresco, guidato dal friulano Battiston, si sdrammatizzano temi assai caldi
In Pitza e datteri diretto da Faribor Kamkari, curdo nato in Iran, già autore di I fiori di Kirkuk (prima libro, poi film, entrambi suoi), ci sono (come nell’aereo delle barzellette): un musulmano extralarge (Giuseppe Battiston, friulano prestato alla Laguna) timido con le donne e specialista nella fuga dall’ufficiale giudiziario che vuol sfrattarlo dal pericolante palazzo nobiliare che occupa; un imam giovanissimo venuto dall’Afghanistan (Mehdi Meskar) che ha tanta voglia di fare, principi ferrei, e volontà vacillante, ma alla fine si rivelerà più saggio di tanti altri più grandi di lui, una procace fedele (Maud Buquet) di modi e accento francesi, che sfratta la piccola moschea dal suo appartamento destinato a diventare (business is business) un più lucroso salon de beautè, oltretutto unisex.
E un’altra battagliera bellezza meticcia (l’italo-africana Esther Elisha), l’indeciso e pacifico capo della comunità (Hassani Shapi), il sindaco macchietta…. Il tutto condito dalla musica sempre piacevole della romana Orchestra di piazza Vittorio, nata dall’incontro tra musicisti europei e dell’Asia più o meno vicina, India compresa.
Il film in fondo è già tutto nei suoi personaggi, che poi danno vita a una farsa a tratti sgangherata, nel segno di un’impegnativa tolleranza reciproca e di una fratellanza più o meno universale, in bilico tra Europa e terzo mondo, oriente e occidente, nord e sud, est e ovest. Che non potrebbe avere location migliore di Venezia, per bellezza, luce e senso di città-snodo tra Europa e Asia, Nord e Sud del mondo.
Una Venezia, oltretutto saggiamente esplorata della sua dimensione “minore”, tra calli e campielli meno frequentati, i dock della stazione marittima, il porto commerciale, il Ghetto e Dorsoduro, Castello Basso e Marghera. Tutti comunque belli, anche nella loro bruttura post-industriale.
A tenere le fila delle tragicomiche avventure della piccola e litigiosa comunità islamica di San Marco, non più di una quindicina di pittoresche anime guidate dall’incerto Kerim, costretta dopo lo sfratto della sede e per gli irrisolvibili dissidi interni caratteriali a chiedere aiuto alle istanze superiori vedendosi poi recapitare il malcapitato imam ragazzino – che si chiama Saladino, come il ben più feroce condottiero e la mitica figurina Liebig anni Trenta – è l’allegro e sovrabbondante Battiston, senza il quale però, va detto, il film forse cascherebbe.
Kamkari confessa l’influenza, sul suo stile, della storica commedia all’italiana, maestra nel trattare temi seri, importanti, con leggerezza. Ma nel cast, alla ricerca di un’immediatezza destinata a colpire subito il pubblico, ha messo tanta gente vera e pochi attori professionisti. Forse non solo per problemi di budget. Anche questo è meticciato culturale