Roan Johnson, padre inglese e madre italiana, racconta i fatidici nove mesi di due ragazzi che, alla vigilia della maturità scolastica, si trovano a doverne affrontare una ben più grande, quella della vita stessa. Lui “cazzeggia”, lei è più consapevole, e insieme decideranno di tenersi il piccolo in arrivo. Senza drammi, né grandi rovelli, sperando solo di essere un po’ felici. E di divertire il pubblico
Qualcuno potrebbe dire che Roan Johnson, padre inglese, mamma italiana, formazione pisana, sia rimasto un eterno adolescente. Con il film d’esordio, I primi della lista, ha rispolverato una storia, vera e tragicomica, avvenuta nei tempestosi anni ’70, quando un terzetto di giovani di sinistra, certi di un colpo di stato, hanno cercato asilo politico in Austria. Nel secondo, Fino a qui tutto bene, ha ripercorso gli anni dell’università. Ora con Piuma si cimenta con la paternità (e la maternità), visti però da un’angolazione particolare: quella di due diciottenni che devono affrontare la maturità. Intesa sia da un punto di vista scolastico che in senso lato.
I due sono Ferro (Luigi Fedele) e Cate (Blu Yoshimi). Lui è un cazzeggiatore sempre pronto a citazioni strampalate, condite da un ottimismo esasperato. Vive con i genitori, padre iroso toscano inadeguato, mamma coccolona, nonno acciaccato brontolone ma disponibile. Lei è più consapevole, sballottata da un padre incapace di affrontare la vita, mentre mamma se n’è andata da tempo. Stanno pianificando la mitica vacanza postmaturità, quando succede il fatto. Cate è orientata a tenere il piccolo in arrivo, con Ferro che naturalmente si adegua con incosciente entusiasmo. I nove mesi canonici sono la scansione del film, con gli avvenimenti che si accavallano e si susseguono mentre la pancia diventa sempre più grossa.
La storiella preferita da Ferro riguarda un carico di migliaia di paperelle gialle di plastica. Partite dalla Cina, fanno naufragio, ma loro, destinate alla calma della vasca da bagno, riescono a sopravvivere alle tempeste oceaniche e i loro spostamenti addirittura aiutano a capire le correnti. Perché la chiave scelta e preferita da Roan non è quella del dramma, tantomeno le tinte forti, il suo intento è quello di porre un problema, senza moralismi, e di raccontarlo cercando di strappare quanti più sorrisi è possibile. Questo è anche il senso del titolo, Piuma, futuro nome della bimba che i due stanno aspettando, scelto all’insegna dell’originalità ma soprattutto della leggerezza che dovrebbe caratterizzare la sua vita.
Presentato a Venezia, in concorso, il film è stato oggetto di inutili polemiche perché ritenuto non all’altezza di una vetrina così prestigiosa. Paturnie autoreferenziali da critici. Un film può piacere o meno, se ne può scrivere in termini positivi, negativi o inconcludenti (come scriveva Variety recensendo le recensioni) ma stabilire l’altezza dell’asticella per una competizione festivaliera entra di diritto nella famosa rubrica di Cuore sull’inutilità, coniugata in termini più aspri.
Alla fine Piuma si rivolge al pubblico, che in questo periodo sembra avere per la testa altro anziché il cinema. Sicuramente saprà far sorridere e talvolta scatenerà risate, e chi vorrà vederci macchiette invece di personaggi, o ricerca della battuta esasperata, se ne faccia una ragione: perché Johnson non aveva intenzioni di grande rovello esistenziale, semplicemente voleva mettere a confronto generazioni di genitori strizzando l’occhio alle inadeguatezze di nonni, padri e nipoti.
Piuma di Roan Johnson, con Luigi Fedele, Bly Yoshimi, Michela Cescon, Sergio Pierattini, Francesco Colella