Al Teatro della Cooperativa fino al 6 maggio, Marco di Stefano rievoca gli anni in cui la sua vita ha incrociato quella dei ragazzi che sarebbero diventati le Bestie di Satana. E usa lo strumento del teatro come linea di confine tra il bene e il male
Come vi sentireste se un giorno riconosceste un volto sul giornale? Se un volto incrociato tante volte, come per caso, con cui avete diviso una sigaretta o una birra, esplodesse in un giorno di estate qualunque, sulle pagine dell’orrore puro, in un giorno d’estate qualsiasi: il ragazzo che ti spilla le birre e sopra un titolo urlato. Bestia di Satana.
A Marco di Stefano, a 23 anni, nel 2004, è successo proprio questo. Qualcuno che c’era ha deciso di dimenticare, e facendolo, lo condanna a ricordare. Poco più di un fatto personale, in scena al Teatro della Cooperativa fino a sabato 6 maggio, nasce da qui. Da un ricordo in prima persona singolare, che per prendere corpo sulla scena deve saper dire metterci la faccia e insieme uscire da sé. E prendere in prestito – o forse insinuarsi, come fa il male, dentro altri io.
Quelli di Susanna Miotto, Alice Pavan, Riccardo Trovato e Fabio Zulli. Quattro bravi attori che tornano ad essere ragazzi comuni, che attori vogliono diventarlo. E in quell’interregno tra i timori e il futuro il male annida, intossica, avvicina, tradisce e svela Tutti, a ben guardare, anche senza bisogno di eccessi d’attenzione, hanno un proprio “fatto personale” da confessare, alla luce livida di una stazione di polizia. E quale sia in fondo, non importa nemmeno così tanto. Quello che conta è quel momento, in cui si aveva diciassette anni, e qualcosa da farsi perdonare, c’è. Dal mondo, spesso, ma anche solo dagli amici. Da quelle persone che, in quel momento, sono l’unico orizzonte possibile del nostro senso. L’unica ancora possibile per sopravvivere.
Perché, come cantano I tre allegri ragazzi morti (appunto) ogni adolescenza coincide con la guerra, e a una guerra il massimo che puoi fare è cercare di sopravvivere. «Ho imparato a percepire il limite giusto per non farmi male». dice Ricky, il “piccolo” del gruppo. Quello che te la dice senza girarci intorno, la sua verità che poi crescendo si cerca (si finge?) di rifiutare: dovevo, farmi accettare. E allora si sceglie da che parte stare. Il bravo ragazzo, la sfrontata, l’inscalfibile, il debole. Ma si sceglie davvero? E in che misura?
E allora, cosa è personale e cosa è collettivo?
Il doppio binario che la regia di Stefano Beghi rende esplicito è una dichiarazione di poetica: sopra c’è Marco, che fa il punto su una vicenda di cronaca che in molti hanno sentito ma pochissimi (soprattutto se sono cresciuti tra le province di Milano e Varese a inizio millennio) non vogliono ricordare, c’è Marco che segna i momenti in cui la sua storia e quella dei ragazzi che diventeranno le Bestie di Satana si sono sfiorate e toccate. Sotto c’è la vita di quattro ragazzi. Quattro attori e una responsabilità con cui fare i conti. Fumosa e pesante, al tempo stesso. E un’altra strada possibile. Quello che siamo, e quello che avremmo potuto diventare.
Una dichiarazione di poetica, si diceva, nel senso che non c’è nessuna volontà di romanticizzazione dell’orrore: quella delle cosiddette bestie di Satana, che hanno ucciso tre ragazzi di 16, 18 e 27 anni, Fabio Tollis, Chiara Marino e Mariangela Pezzotta, i primi nel 1998 e la seconda nel 2004, inducendone al suicidio un terzo, Andrea Bontate, nel frattempo “o ti ammazzi tu o lo facciamo noi” – è una storia dell’orrore.
Con un’impostazione che fa eco alle migliori, fortunate esperienza di podcast true crime, che a una ricostruzione rigorosa affiancano la dimensione personale della narrazione. Come in un podcast, la narrazione si appoggia a una non banale architettura sonora che spazia, (va da sé) al metal che i ragazzi ascoltavano allora, (a lungo, in modo quantomai superficiale, considerato da una generazione precedente una parte del problema) fino alle ballad più morbide e ai Green Day.
Sotto, invece, ci sono quattro altre vite possibili. Anche loro, chiamate a fare i conti con le potenziali conseguenze delle loro azioni. E tuttavia, sopra e sotto si mescolano. Per l’uno come per gli altri l’essere qualcuno che non si è (come si deve fare in scena) e l’essere se stessi si sfarina e si confonde, la realtà entra nel racconto con tutta la sua inevitabile violenza.
La scrittura di Marco Di Stefano – e Chiara Boscaro – si confronta di nuovo con un tema spinosissimo (dopo aver parlato del disastro della Thissen, di femminicidio e di P2) con grande misura e precisione, trovando la grazia della precisione, senza mai cedere agli eccessi emotivi. E lo fa, questa volta più che altrove, andando per sottrazione.
Come si racconta l’orrore, come lo si affronta? La risposta della Confraternita del Chianti è la più acuta: scegliendo quando è il momento di non farlo. Quando entrare dentro l’orrore, anche solo per raccontarlo, significa aprire la porta ai mostri che troveremmo nello specchio. E allora si sceglie di rimanere sulla porta. Non per sfuggire, ma per assumersi il coraggio di una prima persona singolare che del male identifica le radici, i contesti (la solitudine, la provincia) senza farne facili pretesti narrativi.
Che va a cercare le voci di chi c’era rispettandone il silenzio, consegnando una memoria lontana da ogni pornografia dell’orrore, e del dolore. Una scelta vincente non solo drammaturgicamente – anche grazie a un cast che sa davvero essere quel che interpreta – ma soprattutto di coraggio. Il coraggio di cui ha bisogno la verità, e la speranza. La luce impossibile che sa dare un padre capace di accompagnare a una nuova vita la ragazza – diciottenne anche lei – che ha ucciso sua figlia.
Poco più di un fatto personale è teatro ridotto al minimo dell’artificio, pur se sempre curato. È la storia di uno spettacolo che non c’è. . Non solo perché l’idea iniziale di raccontare in scena le bestie d Satana è diventato altro e di più. Perché il male non c’è bisogno di vestirlo di costume e copione per farlo vivere. Ma perché il ruolo del teatro in casi come questo è molto diverso, e forse più importante. Essere la risposta alla domanda alla domanda che Marco Di Stefano si fa dal 2004: cosa ha reso me diverso da loro? «Forse, mi ha salvato il teatro». Lui sapeva dove voleva andare, e la fascinazione del male l’ha fatta narrazione. Loro, invece, se ne sono fatti ingoiare. Forse proprio perché non avevano le parole.