Ecco la seconda puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Oggi Giulia Niccolai legge un testo di Angelo Lumelli.
1.1
Per quanto un luogo stia fermo in attesa del nostro arrivo, c’è una qualità, nel luogo amato, in virtù della quale sembra venirci incontro.
Il suo modo di attendere, come preparando il passo che lo avvicina, appartiene alle virtù dello stile.
In quanto stile, quel passo sa di essere fondato sull’arte della sospensione, dell’inoltramento e dell’abbandono.
Tali arti concorrono a generare l’impronta, segno dello stile che è passato.
Lo stile si vede dall’altezza e dal tempo con cui il piede si alza e tocca terra.
In quell’istante si capisce l’entità che riveste l’atto del camminare e come i passi siano passi di un intimo ritorno, anche nel caso di paesi nuovi e lontani.
Lo stile è una questione di vuoti, come essere soprappensiero.
In tale senso è simile all’amore, luogo vuoto per eccellenza, destinato alle risonanze.
Per me un luogo amato è Milano. Di Milano amo i primi piani, come le lastre di porfido rosa nelle vie con i tram e le rotaie, delle quali ammiro le scanalature, le intersezioni accurate, la messa in opera nelle ore notturne, con fuochi accesi in vecchi bidoni, magnifica compagnia per gli insonni.
Milano riesce a suscitare in me la premura dello sguardo. Spesso sento di portare a compimento bellezze senza clamore e senza diritti.
Per questo mi sento costruttore della città. Mentre sollevo lo sguardo, lei appare.
Anche la ricchezza di vetrine con spessi cristalli, le facciate granitiche, i portoni con colonne, riscuotono la mia ammirazione, come si trattasse di una ricchezza giusta. A tanto può arrivare lo stravedere.
I miei posti sono sempre stati Porta Ticinese e Porta Genova.
In Col di Lana fino al 1975 circa c’era una latteria dove la signora cucinava le uova nel padellino di alluminio.
Ci sono ancora bar tabacchi che per le ore notturne sono la salvezza.
C’è una rimessa dei tram e belle rotaie senza ruggine. Alla prima corsa del mattino salgono esseri arruffati come passeri d’inverno. Nessuno parla a quell’ora, ma tutti sembrano parte di un dialogo.
E’ il dialogo che deve portare rispetto, stare attento a quello che dice, a volte tacendo per lasciare passare un corpo vivente.
Ci sono vie regolate secondo il tramonto del sole invernale, cosa molto raffinata e rara.
Questa è la vera magia: lo spazio della città moltiplica i versanti del sud e del nord, indirizza i venti, distribuisce le ombre.
Migliaia di persone mettono la chiave nella serratura e migliaia di luoghi ci escludono mentre comincia la grande festa delle solitudini.
In quel momento batte il gong per una strana partita: chi arriva prima allo scambio di persona.
(Angelo Lumelli, bianco è l’istante, edizioni de il verri, 2015)
Si noterà subito che la sua prosa è anche (?) poesia, è soprattutto, assolutamente poesia.
Dunque, in questo senso non vado fuori tema, ci vado per un’altra ragione: ho scelto bianco è l’istante non solo perché questo, appena uscito, è uno dei pochissimi libri suoi in circolazione, ma soprattutto perché tra queste pagine Lumelli racconta un episodio rivelatore che ci fa capire che persona sia lui e quanto siano simili, coerenti, quanto combacino le sue parole e la sua mente, il suo pensiero e l’uomo che lui è.
Il suo è un caso di eccezionale limpidezza.
Conosco Lumelli da una quindicina d’anni, l’ho spesso incontrato a letture di poesia, con altri poeti e gente attorno.
Molto presto mi sono accorta di un fatto significativo: tutti sembrano rivolgersi a lui, in un certo senso, “corteggiandolo”, proprio perché lui non sembra chiedere niente a nessuno.
Lumelli è privo di secondi fini, dunque di nevrosi.
Questa non è forse una rarità quasi unica, che in un momento come questo è il caso di mettere in evidenza?
Io comunque non ne posso fare a meno, anche se ciò può sicuramente essere considerato fuori tema, sconveniente, troppo personalistico.
Da 25 anni sono una monaca buddhista. Questo mio non è un corteggiamento, ma sicuramente è un omaggio alla costante presenza di poesia istintiva nella sua etica innata.
Tenterò di non farmi prendere la mano e di essere equilibrata nel parlare del poeta e dell’uomo.
Il primo periodo:
Per quanto un luogo stia fermo in attesa del nostro arrivo, c’è una qualità, nel luogo amato, in virtù della quale sembra venirci incontro.
Appena lette queste parole, ho dato un pugno alla scrivania: già alla prima riga Lumelli fa centro – mi sono detta. Mi rivela qualcosa che ho intuito ma mai chiarito, mai detto a parole, e che lui invece – accidenti, conoscendone il sapore e l’incanto – tira fuori con apparente naturalezza, come il prestigiatore tira fuori il coniglio bianco da un cappello a cilindro.
Questo suo pensiero è così definitivo e compiuto che starebbe benissimo anche a chiusura del libro.
Il fatto è che Lumelli “scrive” costantemente, traducendo in parole chiarificatrici tutto ciò che – di significativo – gli passa per la mente. In poche parole: tutto.
Essendo arrivato a quella particolare frase col pensiero (Per quanto un luogo stia fermo…) l’ha anche scritta. E da lì, bianco su bianco inizia l’istante.
E quelle righe successive sullo stile? Dico: stile!
Il suo modo di attendere, come preparando il passo che lo avvicina, appartiene alle virtù dello stile.
In quanto stile, quel passo sa di essere fondato sull’arte della sospensione, dell’inoltramento e dell’abbandono.
Tali arti concorrono a generare l’impronta, segno dello stile che è passato.
Lo stile si vede dall’altezza e dal tempo con cui il piede si alza e tocca terra.
In quell’istante si capisce l’entità che riveste l’atto del camminare e come i passi siano passi di un intimo ritorno, anche nel caso di paesi nuovi e lontani.
Lo stile è una questione di vuoti, come essere soprappensiero.
In tale senso è simile all’amore, luogo vuoto per eccellenza, destinato alle risonanze.
Descrivendo i movimenti di un passo ci dice anche in cosa consista la “letteratura”: sospensione, inoltramento, abbandono.
Il camaleontismo, l’abilità della sua scrittura ha spesso a che fare con due cose contemporaneamente: una esplicita, che è però anche la metafora perfetta di un altro argomento – la seconda, che si rivela con un nostro appagato senso di meraviglia.
La sua consapevolezza lo trasforma in detective, lo tiene ben legato alla terra, gli dà quella sicurezza che tutti gli ammirano e a causa della quale, forse, anche lo invidiano . Ma sono troppo orgogliosi per rendersene conto.
L’elemento terra – secondo la tesi orientale dei chakra del nostro corpo – sta all’intestino e rappresenta l’aggregato delle emozioni. Al negativo avremo orgoglio, al positivo, emanazione.
Lumelli emana. L’orgoglio, l’arroganza li ha fatti fuori. Non li ha più, non gli danno più fastidio.
Invidia e gelosia stanno al chakra sottostante, quello dei genitali, e sono dell’elemento aria. Finché non avremo attraversato l’elemento terra del nostro orgoglio, e non ne avremo preso coscienza, non saremo nemmeno in grado di riconoscere invidia e gelosia perché gli stanno sotto.
Non a caso il 99% delle persone è convinto di non essere invidioso.
Ma come è possibile non esserlo in una società competitiva come la nostra?
E’ l’orgoglio che ci farebbe vergognare di essere invidiosi. Così siamo convinti di non esserlo.
Per “fortuna” nostra, perché l’invidia è imbarazzante e fa soffrire.
A pag.64, Lumelli scrive:
Lo stile è una questione di vuoti, come di chi, intimo alla cosa, la sente soprappensiero.
In tale senso è simile all’amore, luogo vuoto per eccellenza, destinato alle risonanze.
Il rimbombo, invece, è una risonanza mal riuscita, come un amore che scopre i diritti e ribadisce ciò che soltanto è fugace.
E’ lo stile della nostra scrittura, quello della nostra mente che sta sempre dicendo la sua, che dunque ci è intimo, che sentiamo soprappensiero perché ne siamo così abituati. Ci accompagna sempre. Lo diamo per scontato.
Che dire di parole come “risonanze”, “rimbombo” dell’amore?
Riguardano specificatamente il senso dell’udito, ma hanno a che fare con tutti e cinque gli altri sensi, soprattutto con il “sesto”, in Oriente, cioè il centralino della mente che li governa tutti.
Risonanze e rimbombo, non mi pare possibile trovare parole più appropriate.
Costanti associazioni fanno svolazzare la nostra mente tra le sue parole, come una mosca in una stanza. Non riusciamo a stargli dietro. Ci devono venire in soccorso pazienza e concentrazione.
La sua scrittura è sicuramente terapeutica, cerca di tirarci fuori dalla nevrosi, ma per riuscirci, dobbiamo prenderla sul serio, affidarci a lei.
(Il brano citato che ho scelto è tra i più semplici, ma ve ne sono altri che riescono a farci girare la testa, v. il capitolo 3.7 sulla “verità”).
La sua scrittura è l’antidoto definitivo alla banalità.
Lumelli è contemporaneamente, comico, tenero, filosofo, poeta.
Una cartina di tornasole che ti fa costantemente passare da un’emozione, da un pensiero, all’altro.
Il linguaggio con lui si trasforma in plastilina, ne fa quello che vuole, gli dà delle svolte sorprendenti, a causa delle quali, non sappiamo più dove siamo. Ci costringe a tornare sui nostri passi per rileggere, nella speranza di non perderci una seconda volta.
A pag. 64 Lumelli scrive:
Sono stati uomini durante l’ultima guerra, i padri di una generazione, la mia, che è vissuta di linguaggio fino all’incoscienza.
Certo. E cosa, quale incredibile fenomeno ha fatto sbriciolare i cardini dell’autorità “Dio Patria Famiglia” se non il linguaggio, più precisamente quello dell’introspezione, quello psichico dell’analisi di Freud?
Quello sociale ed economico di Marx, quello della relatività di Einstein? Sono le loro tre menti che, da tre diverse angolazioni, hanno disfatto e rifatto il Ventesimo secolo, costringendoci a divenire più adulti e consapevoli dopo che scienza e “progresso” erano riusciti a fare 17 milioni di morti nella I° Guerra mondiale, e più di tre volte tanti, nella II°.
Ma non è lecito dimenticare Jung, che nella sua autobiografia ricorda una visione che ebbe giovanissimo, quando, di fronte alla cattedrale di Zurigo, dal cielo vide rovesciarsi sulla chiesa tonnellate di merda.
Come rimpiazzare quei miti se non con la consapevolezza, con l’andare fino in fondo alla sofferenza di essere divenuti orfani di quelle potenti ideologie?
O comunque, di doverle comprendere e vivere in modo nuovo, più consapevole e non solo per abitudine, comodità, scaramanzia o superstizione.
Lumelli conosce la cura, non ha mai pensato di allontanarsi o tradire ciò che riesce ancora a mantenerlo salvo.
Pag. 60
*Non c’è niente di urgente per la natura, niente nervosismo, nessun scatto improvviso per raggiungere qualcosa, una corsa per il tram che ha già chiuso le porte.
Ah la compiutezza di quelle porte chiuse! Così assoluta che nessuno la vede e tutti ci sbattiamo il naso con il nostro Ego divenuto spropositato.
E poi, quella descrizione di Milano, quegli accostamenti che commuovono, quegli aggettivi
…la premura dello sguardo… come si trattasse di una ricchezza giusta…cucinava le uova nel padellino di alluminio. L’infimo e il solenne sorridevano…
Parlando del padellino di alluminio a un incontro, ebbi l’audacia di paragonare quel dettaglio a Carlo Carrà che incontravo sempre in una latteria di Via Borgospesso, dove andavo a pranzare quando avevo lezione, sia la mattina che il pomeriggio, al liceo linguistico Manzoni che allora si trovava in Via Manin (parlo dei primi anni Cinquanta).
Non è che si considerassero le latterie frequentate spesso come “casa propria”, ma ognuno considerava “propria” la latteria che frequentava, perché grazie a una loro particolare atmosfera la sentiva unica e di “famiglia” (le latterie erano sempre piccole, massimo due o tre tavolini). Quello che si provava, non poteva in alcun modo essere paragonato alle sensazioni che davano bar o ristoranti: L’infimo e il solenne sorridevano.
C’è una rimessa dove i tram entrano adagio, a sera tardi, quasi in un santuario.
La conosco benissimo, è in Via Custodi. Ne conosco un’altra, quella di Via Procaccini. E’ vero, i tram entrano adagio, con rispetto (?), facendo poco rumore, in quelle vaste caverne liberty, delle quali, dall’esterno, non riusciamo a vedere il fondo. Per queste ragioni ci incurioriscono, ce le rendono misteriose, come santuari. Cosa ci faranno lì dentro in quel loro mondo privato?
Lumelli è talmente in contatto con la propria mente da essere chiaroveggente e saper leggere anche le nostre.
Alcune parole a proposito del dialogo che segue a pag. 34.
Antica saggezza contadina? Due persone si parlano con il piacere di capirsi, di riconoscersi. Usano poche parole. Bastano per rendersi conto che la vita ha insegnato loro cose molto simili.
Non hanno alcun impulso o bisogno di mostrarsi migliori o superiori l’uno all’altro. Di saperne di più.
Lo specchiarsi vicendevolmente li rende felici. Stanno bene assieme.
Un testa calda sappiamo tutti cosa sia.
Ed è anche una trebbiatrice che veniva costruita a Tortona.
Dalle parti di Sorano ho incontrato un vecchio che faceva ceste di vimini.
Le fa anche di castagno? gli ho chiesto.
Adesso no, mi ha risposto.
Perché non è stagione? ho interrogato di nuovo.
Vedo che ha capito, mi dice lui.
Così mi sono seduto lì vicino e gli passavo i vimini che erano a mollo in una bacinella d’acqua.
Gli ho detto che ero anche capace di togliere la corteccia, ma soltanto quando erano freschi altrimenti non viene via.
E’ così che si fa, mi ha detto il cestaio.
Poi lui ha chiesto a me se ero anche capace di fare le stecche di castagno e io gli ho risposto di no, ma che, da bambino, ho visto uno che veniva dalle parti di Bergamo e che faceva stecche di un metro dello stesso perfetto spessore, con una spinta continua, dritta come un filo a piombo.
Il cestaio mi ha detto che ci vuole il polso fermo.
Gli ho detto che non è un mestiere qualunque.
Dopo avere parlato e parlato siamo andati a mangiare insieme in una trattoria.
Mi ha spiegato cose facili e belle.
Abbiamo parlato di grano, di erba medica e di come si intestano i castagni per fare pali da vigna.
Mi ha detto che negli anni cinquanta c’era in giro una trebbiatrice fabbricata a Tortona.
Il testa calda sarà stato un Orsi, gli ho detto, una grande macchina.
Proprio lui.
Quello è stato un bel viaggio, come stare a casa.
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