Da poeta a poeta #3: Vincenzo Frungillo legge Cesarano

In Letteratura

[Ecco la terza puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo…

[Ecco la terza puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Dopo Biagio Cepollaro, e Giulia Niccolai, oggi Vincenzo Frungillo legge un testo di Giorgio Cesarano.]

Con la testa sul mio cuscino
dormivi nei tuoi capelli
sanguiformi nell’alba

– ora ti guardo mentre perdi luce
Piangendo nei tuoi capelli all’addio,
sul campo è l’ora dei pipistrelli –

debole come ora e tradito
da tanta mia spesa dolcezza
non sapevo vedere di te
che il nero, la cupa forma che mi assorbe.

Con la testa sul mio cuscino
e questo che reggo sul gomito, mio
corpo, dai segni ancora di palestra e degli
strapiombi d’asfissia

a soffi il mare
vive per un momento in una
tenda spettrale

aveva i tuoi occhi
la ragazza che in questo stesso hotel
d’ironico nome come Victoria

quand’ebbero gli anni principio d’amore
venne diritta, vita.

Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi
di me che discendendo li raggiungo

Solo allungassi la mano
verso il soccorso della voce della
chiara serena Nina tutta certa.

Ma questo che reggo sul gomito, mio
corpo discende nel tuo sonno.

«Ora lo so, di tutti quei corpi
Scoperti a principio come un po’ più grandi
Macchie di foglie e fiori nei campi…»

«E tu imperterrito alla finestra? »
«E io nella cristallina
acqua del cannocchiale a gelarmi. »
«Ma non eri dunque mai stato infelice?»

«Ora lo so di tutti quei gesti
muti nella ravvicinata
distanza: il film delle delizie!
la ragione disperata che non mi riesciva
mai, stupefatto, di chiarirmi.»
«Ma allora quei versi persino eleganti,
così chiari a me, che non li posso amare.»

«Allora quei versi non me li seppi spiegare,
partigiano della gioia e così sordo all’inferno.

Disceso ora con te dove brucia l’inferno.»
Come in margine al campo,
come all’angolo
tra spie e fosso, in auto, e dove
la palta è calva è pesta è da topi è da carogne
di gatti è da crisi sfiancati da ammazzati
«io qui»
(mentre ci si abbracciava e tu
con le lagrime io con la voglia
d’avere finalmente una furibonda
voglia, non dolce, in quel momento
sospeso fra un dirotto stupro e adesso
mi piego di gola sul volante adesso
me ne frego e piango me ne frego e schianto)

«io qui» potrebbe girarmi di dire «se dovessi
scegliere di farla finita» cosa che non dico
e mi duole come a te secondo te la bocca
delle viscere e mando a memoria
luce smorta ancora tutte le foglie
persino una rasente
rondine, ma se è già inverno
ma se è già niente, già niente, ma se
basta. Tu alzi uno sguardo
di cuoio e «amore tu mi dai tanto»
dici e «caro non sono capace di dare
niente» mi vedi partire
«non sono capace di vivere» immobile a un palmo
mi vedi che taglio la corda che me ne vado
«non sono capace di vivere senza di te»
filando seduto morto a un palmo da te.

 

(Giorgio Cesarano, da “Due” in Romanzi  naturali, Guanda, Milano, 1980)

 

Giorgio Cesarano ha lavorato molto sulla struttura del testo e sul valore metaforico di ogni sua parte, senza per questo sacrificare la potenza lirica della poesia. Per questo motivo mi sono interessato ai suoi scritti, anche quelli teorici, e ho deciso di proporre qui Due.

Questa poesia è stata scritta tra il 1964 e il 1965, il titolo del lungo componimento, di cui pubblico solo  un estratto, allude alla relazione amorosa tra due amanti ma esplicita anche la doppia ambientazione del testo: la prima è una stanza d’albergo, la seconda un campo nei pressi di una grande città; uno spazio chiuso ed uno aperto, un interno ed un esterno.
La prima parte ha una forte impronta espressionista, “i capelli sanguiformi” ricordano alcune figurazioni di Dino Campana. L’immagine è profezia di un finale tragico, la donna amata è “la cupa forma che assorbe”, è la ragione di una sconfitta, ma non è solo questo. Il corpo dell’amante è agli occhi del poeta la riduzione creaturale e oscena della vita: “quand’ebbero gli anni principio d’amore/venne diritta, vita”. È a questo punto della composizione che lo spazio esterno si riversa in quell’interno invadendo l’intimità della camera, un po’ come avviene nel bel finale di Entropia, il racconto di Thomas Pynchon.

Il passaggio è ottenuto con una vera e propria apertura di campo, tanto da far pensare ad una modalità  cinematografica. Del resto, pochi anni dopo questa poesia, Cesarano avrebbe scritto il poemetto Ghigo vuole fare un film in cui avrebbe accostato la poesia al montaggio sequenziale della sceneggiatura.

Anche dal punto di vista formale la mera composizione lirica si trasforma in un genere più complesso, accetta regole eteronome. Le strofe brevi di due, massimo tre versi, vengono sostituite da una versificazione ampia, tra il narrativo e il riflessivo. Nella seconda parte diventa chiaro il motivo per cui l’autore abbia chiamato queste poesie Pastorali. Se nella storia della letteratura la pastorale è il genere  dei motivi agresti e paesaggistici, che fa della natura il luogo di un possibile idillio, un rifugio dai dolori esistenziali e della storia, in Cesarano diventa lo spazio in cui inscenare la tonalità emotiva dominante.
La separazione tra i due amanti è l’impossibilità di un’unione con la natura, di un’armonia con il mondo. La tradizione viene quindi rielaborata e il genere rovesciato. Il contenitore formale serve a potenziare il senso della poesia secondo una sensibilità contemporanea. Così la distanza che separa gli amanti nella camera d’albergo si trasforma nello squallore del paesaggio urbano materializzatosi in un contesto concreto ed oggettivo, per niente metafisico: “come in margine al campo,/ come all’angolo/ tra spie e fosso, in auto, e dove/ la palta è calva è pesta è da topi è da carogne/ di gatti è da crisi sfiancati da ammazzati/ «io qui»”. La presenza esposta è rimarcata con il corsivo. Non c’è vita ma la prova della finitudine e della totale esposizione. Da ora in poi l’io osserva il mondo come nel freddo di una cristalliera e la donna amata ha lo sguardo di cuoio, privo di riflessi. Come provare un vero slancio, come assecondare un’illusione di felicità se la si riconosce in quanto tale? I due amanti sono dunque parte delle cose morte e da qui osservano “l’inferno” terreno nel quale sono calati. Insieme sono infecondi, producono “il niente”, termine reiterato nelle strofe finali. L’autore li osserva con il piglio di un entomologo, per citare un altro testo poematico di Cesarano, Il sicario e l’entomologo.

La mente rappresentativa agisce come strumento annichilente, “discende dove brucia l’inverno”. Il “partigiano della gioia” è il sintagma più forte ed intenso che descrive questa condizione, identifica tassonomicamente l’uomo occidentale. La voce poetante, che coincide con quella dell’autore, dichiara di comprendere chi prova, sperimenta la vita, sentendosene separato, sempre e comunque alla distanza di “un palmo”:  “«non sono capace di vivere» immobile a un palmo/ mi vedi che taglio la corda che me ne vado/ «non sono capace di vivere senza di te»/ filando seduto morto a un palmo da te”. Il disagio esistenziale è quindi perentorio sia nel chiuso della camera, sia nel campo; le forme della lirica e della pastorale non garantiscono al soggetto amoroso l’armonia necessaria per riconoscimento del mondo; non c’è riparo nella complicità tra l’io e la donna amata, né nella rappresentazione della natura. Il procedere di Cesarano sembra anticipare quella che sarebbe diventata una forma di poesia riflessiva, oltre la lirica, che trova la sua forza non dalla carica emotiva ma dalla precisione gnomica dello sguardo. In questo c’è vicinanza, questa si, con il sentire nostro attuale.

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