Ecco la quarta puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Oggi Eugenio Lucrezi legge un testo di Tommaso Landolfi
Impossibilità,
Dea senza altare, forse
Nelle età a venire
Io sarò detto il tuo cantore.Nelle età da venire forse il mare
Si sarà fatto una pescosa pozza,
Ove languirà il ghiozzo
Nel suo postremo guizzo,
Quando l’aridità
Della cosmica morte
Disseccherà le sorti,
le magnifiche sorti e progressive.Parole come Nubigena, Argiva,
Più non evocheranno
Quell’umano destino
A cui ci credevamo avvinti –
Tirinto: ecco, Tirinto
Galleggerà nei secoli un istante,
E poi colle altre scorie,
Con tutto il ruzzo delle nostre storie,
Naufragherà, sarà travolto,
Naufragherà nell’irrisolto
Fervore delle nebulose
Non ancora formate
(O già corrotte), delle ascose
Combinazioni,
Nelle promesse disperazioni.Ed ancora una volta
Sapremo che fu invano
Ogni giorno sereno
Ed ogni palpito segreto.
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, 1908 – Roma, 1979) si laurea a Firenze in lingua e letteratura russa, con una tesi su Anna Achmatova: e pertanto “il maggiore prosatore italiano del suo tempo” (Carlo Bo) nasce poeta, e poeta lo hanno sempre detto i contadini del natìo borgo selvaggio in provincia di Frosinone, dove spesso si ritira per eccitare la sua scrittura, ed ammansire i suoi fantasmi. L’esordio narrativo è del ’37; il primo libro di poesia arriva dopo ventidue anni, quando la sua fama di narratore prodigioso e fantastico, eccentrico e funambolico, è già consolidata, seppure in ambito prevalentemente letterario. In quegli anni, a cavallo tra i cinquanta e i sessanta del secolo, Landolfi sta traducendo i grandi poeti russi: Poemi e liriche di Puškin uscirà nel’60; Liriche e poemi di Lermontov nel ’63; le Poesie di Tjutčev – che inaugurano la maggiore delle collane di poesia italiana, la bianca dell’Einaudi – nel 1964.
La scorpacciata neoclassica e romantica ha su di lui, novecentista inattuale per vocazione e per vezzo, l’effetto di una salutare purga, sbattendogli in faccia la questione, centrale ma elusa dai più al suo tempo, dello stile; e lui, consapevole che lo stile è finito quando alla voce individua si è sostituita la vociferazione delle (in)civiltà massificate, rilancia, pubblicando nel ‘59 il Landolfo VI di Benevento, una tragedia di argomento medievale in sei atti che è una sorta di poema drammatico manzoniano, anacronistico e magniloquente. Con questo gesto estremo in endecasillabi Landolfi, consapevole della circostanza che fin dall’inizio del secolo, sulla scena della poesia, il soggetto e l’io lirico non fanno che arretrare con passo sicuro, asserisce che il funerale della baldanza dell’uno e dell’altro, dopo le sanzioni e le burle di Palazzeschi, lo tiene lui, il poeta Landolfi vestito da ultimo dei celebranti dello Stile: che alla fine lo gonfia e lo fa scoppiare, a botte di spacconate e di piagnistei.
Voce postrema dell’io romantico, Landolfi scrive apposta una poesia esterna ed estranea rispetto a TUTTA la sua coeva. Scrive infatti uno stile morto, a bella posta e da scrivente morto. E dopo tredici anni torna alla poesia pubblicando le trecento, ingombranti pagine del suo gran libro: Viola di morte, dalle quali proviene la poesia che qui si propone. La stesura dell’opera, iniziata nel ’68 ad Arma di Taggia, termina, due anni dopo, nella solitudine di Pico.
Il periodo vede la poesia italiana intenta alle ginnastiche neoavanguardistiche, mentre il neorealismo arretra, lo sperimentalismo cavalca le rivolte studentesche e le poetiche innamorate stanno maturando i primi frutti. Pochi mesi prima dell’uscita del libro Landolfi è colpito da una crisi cardiaca; appena pochi giorni prima, muore il padre. Viola di morte vede la luce così, col cuore a pezzi: scorato già di suo, come per prefigurazione dei malanni che ne avrebbero accompagnato la nascita. Di sicuro a quei malanni è accordato a puntino.
Ed è un libro, come il primo suo in versi, del tutto alieno. «Squallide liti corre l’alma mia, / d’immani e grige nubi il cielo i’ fiso»… Il libro prende avvio con un sonetto scritto nel ’20: per riuscire a scrivere i suoi versi Landolfi torna dunque, a sessant’anni, alle prove dei suoi dodici anni. Una vita di letteratura per arrivare alla più netta delle definizioni: la poesia è pratica dell’inizio e della fine. Tra lo sbocciare del fiore poetico e il suo appassire, si affolla il repertorio delle figure, ridotte e monotone per l’esodo degli umani: quasi soltanto l’io, i fantasmi dei familiari morti e assenti, gli animali e le piante.
Il passare delle stagioni, puntigliosamente registrato, è controcanto della dismisura mostruosa del cosmo impassibile e inesplicato. Nulla nel grembo al nulla: «Parole come Nubigena, Argiva, / Più non evocheranno / Quell’umano destino / A cui ci credevamo avvinti – / Tirinto: ecco, Tirinto / Galleggerà nei secoli un istante, / E poi colle altre scorie, / Con tutto il ruzzo delle nostre storie, / Naufragherà, sarà travolto, / Naufragherà nell’irrisolto / Fervore delle nebulose». Il sapore dei versi è ottocentesco, la disperazione un falsetto, i componimenti sono conglomerati sporadici di parole disseminate e resistenti, offerti al lettore mentre cadono nella rete smagliata di un D’Annunzio decrepito. Il poeta raccatta le parole, il suo corpo-viola intona nenie di morte. «Astronauti, ridateci uno spazio / (Almeno) vuoto d’uomo»: tra la luna di Solmi e quella di Zanzotto sta la luna di Landolfi. Le poesie scritte nei dintorni dello sbarco sono le sole del libro a dolersi di un fatto di cronaca, se pure di portata epocale. Ma Cancroregina, con i suoi comici spaventi e i suoi cigolanti congegni di straniamento, è restata nel 1950. Questa luna di vent’anni dopo, violata per davvero, non è che una fantasima, una tra le tante.
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