Petronio ispira una riscrittura e una messa in scena – a opera di Francesco Piccolo e Andrea De Rosa – che si muove ossessiva e famelica, con un cast straordinario
Più che mai un Theatrum Mundi dell’oggi – come recita il titolo della rassegna estiva ideata da Luca De Fusco – questa terza stagione che restituisce testi della classicità vivi e tangibili sull’antica scena del Teatro Grande tra gli scavi archeologici di Pompei. Il filo rosso delle potenzialità mancate dell’intelligenza umana (fisiologica o artificiale che sia) rinnegata a risolvere i problemi della sbandata umanità 2.0 lega fra loro i tre spettacoli di prosa che compongono il programma.
La tempesta shakespeariana nell’anomala lettura dello stesso De Fusco diventa un manifesto lucido (non certo pessimista!) della disillusione contemporanea, dramma del disinganno incarnato da un titanico Eros Pagni nel ruolo di un Prospero che vive l’intera pièce entro l’autismo intellettuale della propria mente e della propria alterigia.
Così l’Edipo a Colono pubblicato una ventina di anni fa (Ed. Einaudi) da Ruggero Cappuccio a partire da Sofocle e reso in endecasillabi e settenari siculo-italo-napoletani nell’attuale allestimento del regista greco Rimas Tuminas dimostra in modo inequivocabile come la nostra (cosiddetta) civiltà sia approdata a un nihilismo esistenziale globalizzato, a un fallimento in cui la società si dimostra incapace di qualsivoglia potenziale catarsi (anche qui fuori da ogni lettura pessimistica).
Abbiamo superato anche il post-apocalittico e perfino Godot ci ha abbandonati da tempo. “Che facciamo?” chiede Ascilto. “Che facciamo?” risponde Encolpio. “Che facciamo?” replica Gitone. “Trastevere? -Troppo lontano” “Da Ottavio?-Troppo vicino” “Discoteca?-Si suda” “In un locale jazz?-Sai che palle?”.
Inizia con questo prologo la riscrittura del Satyricon di Petronio firmata da Francesco Piccolo e chiaramente elaborata a quattro mani col regista Andrea De Rosa. I tre personaggi del testo classico sono diventati oggi i nuovi ragazzi del muretto di una qualsiasi periferia metropolitana (non per forza romana), moderni vitelloni trash che vestono trendy alla Gomorra e che si esprimono in stile sincopato-cabarettistico.
Dietro di loro un’immensa scena abbagliante tutta in oro a specchio come e più di un mosaico bizantino, set ideale per uno spot di Versace o D&G, d’oro il pavimento, d’oro l’immenso fondale, d’oro i puff e i cuscini sul palco. E a dominare il tutto, dietro a un a falsa iconostasi di frange nere, il totem-altare della tazza di un enorme water – ovviamente in oro – da cui tiranneggia incontrastato Trimalcione modello da raggiungere e vacuo maître à penser. Insieme a loro agiscono un intellettuale e cinque donne, tutti riconducibili a modelli cinematografici.
Perché si riconosce tanto, tanto cinema alla base di questa regia. Fellini come primo riferimento, e non solo per il film omonimo del ‘69. Suo è il girare a vuoto dei tre protagonisti sulle orme dei perditempo riminesi degli anni ’50, suo il modello del critico Marcello ne La Dolce Vita, come alla Anouk Aimée del La Dolce Vita riporta il personaggio dell’attrice impegnata.
E se la donna che commenta gli eventi cantando versi di canzoni pop ricalca al ribasso l’analogo personaggio delle 120 giornate pasoliniane, l’eterna peregrinazione senza meta della comitiva da una festa all’altra non può che ripercorrere gli stessi sentieri calcati dalla carovana del Fascino di Buñuel, un Buñuel presente come Angelo sterminatore anche nella reiterazione dei possibili menù che tornano identici a sé ad occupare almeno un 1/5 del copione.
Ed è riconoscibile anche il Polanski di Che? (film girato sulla vicina Costiera Amalfitana) e della sua nuda protagonista vestita solo della propria innocenza, Maya-Olympia-Venere (anoressica!) immobile in proscenio, unica figura autenticamente perplessa e solitaria antagonista del pensiero dominante.
L’intera messa in scena è un’ininterrotta Coena Trimalchonis a una singola dimensione di chiacchiera fatua, ossessione del mangiare, balli di gruppo (ma potrebbero essere letti anche come di coreografie di Bausch-Fellini) in cui si ragiona di tutto e di nulla, dello sfruttamento del suolo e dei prodotti naturali o degli attori che per ministero hanno valore solo fino ai 35 anni, piuttosto che di una politica trattata in termini da bar. La perdita di senso delle parole per coprire il vuoto del pensiero.
La decadenza della civiltà classica per (s)mascherare la decadenza della civiltà occidentale (T=T? Trimalcione=Trump?). Per fare oggi il Satyricon classico si può solo non fare oggi il Satyricon classico.
E Francesco Piccolo abbandona dunque totalmente l’originale di Petronio recuperando nella sua intelligente drammaturgia solo l’episodio conclusivo del gioco del funerale con la clausola testamentaria del cannibalismo del cadavere, chi più mangia più eredita.
Così Trimalcione finisce bulimicamente per divorare sé stesso annegato dentro un metaforico blob di schiuma vomitato dal water a invadere l’intero palcoscenico con tutti i personaggi che su esso agiscono (ovvio precedente cinematografico: Hollywood Party).
Ed è un curioso ritorno al passato per Antonino Iuorio, qui potentissimo Trimalcione, che all’inizio della sua carriera teatrale fu protagonista di Benno il Ciccione di Albert Innaurato, personaggio che voleva “mangiare fino a crepare” e finiva per ingurgitare tutto sé stesso. Magnifico l’intero cast. Sarà possibile applaudirlo più che meritatamente a novembre al Teatro Argentina di Roma e a gennaio al Mercadante di Napoli.
Foto in copertina © Mario Spada