La ventitreesima edizione di Pordenonelegge si conclude con oltre trecento eventi e un ritorno al grande pubblico. “Ripartenza, resistenza, reazione: con quante parole vogliamo esprimere quella speranza di riuscire a intrecciare coraggio e volontà, intelligenza e buona sorte sufficienti per rinnovare la vita, che in questi ultimi mesi ci è apparsa minacciata e fragile più di sempre?” scrivevano i tre curatori, Gian Mario Villalta (direttore artistico), Valentina Gasparet e Alberto Garlini, per raccontare la scelta del simbolo che ha caratterizzato la grafica di quest’anno. Una spiga di grano: la rigenerazione.
Più del numero degli eventi (trecento in tutto, tra sale teatri tendoni piazze caffè e nuovi spazi), più dell’elenco degli autori (seicento: italiani e internazionali, con tre premi Pulitzer), più dei dati registrati in cinque giorni di attività febbrile di accoglienza nei quali la città ha assorbito decine di migliaia di arrivi, servirebbe una cosa per dare la misura del reale impatto emotivo che la ventitreesima edizione di Pordenonelegge ha esercitato: un registratore di abbracci. Esatto.
Ma un calcolatore non qualsiasi: uno strumento, invece, abbastanza sofisticato da tenere il conto di ogni volta che si sono incontrate, e contenute, le innumerevoli vicinanze di questo festival. Abbracci reali – fisici, esagerati e intimamente sollevati – come quelli che hanno continuato ad aggrovigliarsi un po’ ovunque, nel Corso principale dentro il viavai e fuori dalle sale, disordinati e scoppiettanti come la polvere delle castagnole in tempo di festa. E poi abbracci più profondi e complessi: quelli che hanno pervaso palchi e platee di corrispondenze, restituendo a questa edizione di Pordenonelegge il senso della condivisione in un unico spazio di un respiro, di una attesa, di un bisogno (anche) di ascoltare e di apprendere.
Non spezzare la continuità nella storia della manifestazione, nelle due precedenti (e resistenti) edizioni, è stata anche una scommessa sulla tenuta di un senso di comunità costruito in oltre vent’anni di lavoro per, attorno e dentro i libri: poiché raccontare è cosa umana, ed è stato proprio grazie alle parole raccontate che l’uomo ha elaborato, e affrontato, nel corso della sua esistenza, momenti di crisi e paure enormi.
Ma, dal momento che sempre facciamo i conti con il nostro presente, non era scontata la reazione del pubblico. Le centomila presenze (un enorme abbraccio che ha attraversato giornate di sole rovente, venti, piogge battenti, gelate e un sole infine gentile: quasi come una metafora del tempo in cui stiamo vivendo) hanno restituito un corpo vivo al desiderio di immaginare. Poiché, in sostanza, a cosa serve la letteratura? A permetterci di essere altro, e a proiettarci nella possibilità di un oltre.
E Demetra – la spiga di grano scelta come immagine dell’edizione, insieme germoglio che conosce il buio e diventa poi, al sole, nutrimento – porta bene a Pordenonelegge.
Di tanta messe, alcune spigolature.
La Fortuna ha avuto solo una grande avventura sulle coste della Spagna, ha servito fedelmente, è tornata, è stata ricoverata nell’arsenale, ripulita, verniciata con il fuoco, le è stato sostituito il rostro. Non ha mai cambiato i colori delle sue tende che la assegnano al comparto militare di cui è la nave più veloce. Sui banchi siedono sempre gli stessi marinai da anni, hanno fatto tutto assieme, forse anche l’amore. Sono duecento, sanno vogare e fare la guerra e si danno il ritmo cantando il celeuma, e quando il fiato manca il capo vogata davanti a tutti batte il tempo con il suo stesso corpo. (…) Ma adesso di quella forza nelle braccia non c’era ancora bisogno: il Noto era favorevole, e la nostra vela gonfia. Il nocchiero ha gli occhi di mio padre: ho messo le mie mani sulle sue, alla barra, e siamo usciti dal porto in formazione, come un cuneo che deve fendere quella coltre e arrivare dall’altra parte.
La rotta all’inizio era facile: andare dove nessuno sarebbe andato.
All’ex convento di San Francesco Valeria Parrella legge di Lucio che resiste alla sua Parca di Mezzo, di Plinio e della catastrofe del 79 d.C. : una storia sul tempo, sul sapere, sul desiderio di andare nel suo ultimo romanzo, La Fortuna (Feltrinelli).
Tra le anteprime, c’è anche Diego Marani, con L’uomo che voleva essere una minoranza (La Nave di Teseo); in punta di penna, e con la consueta gentilezza della sua scrittura, una riflessione, paradossale e acuta, su una delle nevrosi di questi tempi: la bulimia da uguaglianza.
La libertà autentica non ha regole e proprio per questo è una dura disciplina. Si conquista in solitudine ma si esercita nella moltitudine. Nessun uomo può essere libero da solo. Nessun destino individuale si compie fuori dal gruppo. L’umanità non migliora un eroe alla volta ma peggiora un vigliacco dopo l’altro. Rodolfo della libertà aveva perso l’uso. Gliene restava l’istinto ma gli si erano atrofizzati gli arti per fruirne. E a che gli sarebbe servito poi riconquistarla? In un mondo di schiavi la libertà addita, individua, tira fuori dal mucchio e vai poi a sapere se è per essere portati sul podio del trionfo o trascinati sul ceppo del patibolo.
Il segno, l’immagine, il simbolo, l’opera. E il libro d’artista: Paolo Ventura, fotografo immaginifico, è il protagonista di una riflessione grafica e biografica, in collaborazione con l’associazione Obliquo.
Aboca porta a Pordenonelegge, tra gli altri, l’anteprima del nuovo lavoro di Antonio Moresco, Il sogno del cammino
Nel camminatore collettivo c’è dentro il camminatore solitario, così come nel camminatore solitario c’è dentro il camminatore collettivo. Come se, anche quando cammino con altri, permanesse dentro di me una presenza nucleare irriducibile, inviolabile, irraggiungibile, e mentre cammino da solo camminassero dentro di me e attraverso di me tutti gli individui della mia e della nostra stirpe e persino i popoli che si sono forgiati attraverso migrazioni, esodi, diaspore.
Di migrazioni, parla anche il libro firmato da Caterina Bonvicini, con un saggio e le fotografie di Valerio Nicolosi, Mediterraneo – a bordo delle navi umanitarie (Einaudi): più di un saggio (perché è condotto dalla penna di una narratrice che usa le parole in tutta la loro tensione), questo libro è uno strumento per interrogarci sul nostro presente, sulla storia che stiamo scrivendo, sulla necessità di capire e guardare in faccia la conseguenza di ogni scelta – e, in ultima analisi, di rimanere umani.
Non sai mai quando partirai, ma puoi stare sicuro di una cosa: da quel Mediterraneo non c’è ritorno. Per nessuno. Una missione Sar è il contrario di un’odissea: il nostos non è contemplato. Tornerà solo un pezzo di te, non sai quale. L’altro resterà per sempre là.
Le foto di questo articolo sono state fatte da Alberto Bogo.