Centodiecimila volte Pordenonelegge

In Letteratura, Weekend

I volti, le parole, il pubblico dei libri: a Pordenonelegge 2023 un bilancio ricchissimo. Più di 600 autrici e autori italiani e internazionali, ben 334 incontri, una cinquantina di sedi tra il capoluogo e le città vicine, 65 titoli presentati in anteprima assoluta. Un festival cresciuto nel tempo, che alla sua ventiquattresima edizione gioca con gli spostamenti d’accento: tra lèggere e leggère la differenza è un piuma; la stessa che ha convocato alla “festa del libro e della libertà”, diretta da Gian Mario Villalta insieme alla curatela di Valentina Gasparet e Alberto Garlini, oltre 110.000 persone.
Ecco, allora un (parziale) reportage.

Scrivere è fare i conti con la fatica di dire: il lungo applauso per Annie Ernaux

Scrivere per me è come estrarre pietre dal fondo di un fiume: non è una gran felicità. Al massimo, è l’idea di aver fatto il proprio dovere, perché sai che nella pagina dopo ci saranno altri pesi, altre pietre. È una corsa a ostacoli: non si finisce mai.

Annie Ernaux riceve il premio Crédit Agricole, e si dice felice di fronte a un pubblico di lettrici e lettori più che davanti a monarchi e dinastie. Una scrittura politica, la sua (come viene presentata giustamente da Alberto Garlini), che “racconta dinamiche sociali sposando una forma non romanzesca, scava nel suo vissuto e si racconta con molta verità. E, così facendo, a volte ci porta nel buio della scomparsa: ciò che leggiamo diventa nostro, diventa suo”. In Memoria di ragazza, non a caso, Ernaux afferma: “A che cosa serve scrivere se non a disseppellire cose”

Il pubblico al Teatro Verdi per Annie Ernaux

“Tutti noi apparteniamo alla storia. Ogni vita è toccata dal tempo: certo, c’è un tocco collettivo (che contiene le leggi, gli eventi la grande cornice); ma poi c’è anche la storia delle cose, degli oggetti (la musica, le canzoni). Ecco: io volevo tentare di mettere questa storia, questo tempo dentro i miei libri. Ed è vero che, di tutto quello che muta, ci sono anche le parole, i modi di dire, i vestiti e le nostre storie individuali, che sono in rapporto con quelle altrui. Ne Gli anni ho voluto raccontare come è cambiata la vita delle ragazze nel corso del tempo”.

Sul senso della storia, su Gli anni e sui temi che compongono l’opera della scrittura di Ernaux si è concentrata molta della riflessione che la scrittrice ha ripercorso:

“È stato un lungo percorso: desideravo raccontare questa storia senza che ci fosse qualcuno in particolare a raccontarla; mi sono chiesta come fare, e piano piano i pronomi (il loro, il lei il noi e il si impersonale) hanno cominciato a evolvere e si sono saldati insieme. Ho visto che funzionava: cosa vuol dire? Che potevo continuare, che ero legittimata ad andare fino in fondo”.

 

“Il ’68 è stato ciò che non ci aspettavamo: lo sconvolgimento nella relazione tra le persone. le persone hanno smesso di lavorare e hanno iniziato a parlarsi. Questo, non a partire dai dominanti, ma dai dominati (gli studenti, gli operai) che non avevano mai preso parola fino a prima: hanno cominciato a chiedersi cosa è la vita, come andava vissuta la vita, che vita volevano.
Ci sono stati importanti cambiamenti nel ’68, ad esempio per le donne. Le donne hanno potuto cominciare a vivere e a pensare in modi che prima non sarebbero mai stati possibili: questo non va scordato mai”.

 

E, infine, la riflessione sulla radice della necessità di scrivere, scaturita da una vicenda per molto tempo innominabile:

La vergogna mi ha impedito per molto tempo di scrivere. All’epoca non si dicevano parole che oggi si possono dire, non si diceva: sono stata stuprata; all’epoca si diceva della colpa: bastava non uscire con un ragazzo, bastava stare attenta, bastava… E questo ha, la vergogna: che non si riesce a cogliere. Verso i miei settant’anni mi sono guardata: posso morire senza avere scritto, mi sono detta, posso morire senza lasciare traccia di questo? Oggi posso dire che forse la ribellione alla vergogna è stata la fonte della mia scrittura, più di ogni altra cosa

Cecilia Sala e la necessità di guardare alle connessioni in cui viviamo

“La rappresentazione che ci facciamo è disattenta”

È questo, per Cecilia Sala, il rischio concreto in cui viviamo. Così il suo libro (L’incendio, pubblicato da Mondadori e in anteprima a Pordenonelegge) si affida a una metafora molto diretta: il fuoco che arde in questo momento in Iran, Afghanistan e Ucraina (paesi che fanno esperimento di un passato di emancipazione e di un presente di aggressione) è un grande rogo il cui calore investe tutti, vicini e lontani.

Un punto, questo, su cui ha molto insistito:

“C’è una crepa clamorosa, evidente, tra quello che la società iraniana è e la rappresentazione che ne vuole dare il regime degli ayatollah. L’Iran è la Germania del Medio Oriente: ha avuto conquiste tecnologiche importanti. Tutta la generazione che dopo la rivoluzione del 1979 ha permesso all’Iran di cambiare, e di arrivare a vivere oggi meglio dei suoi vicini, rischia di sparire nella repressione, e di impoverire tutto l’Iran. Con conseguenze a cascata”

 

E, ancora:

“Dobbiamo ricordarci che i Talebani sono un movimento che esiste da meno tempo dei telefoni cellulari. E non sono odiati solo dalle ragazze emancipate di Kabul, ma anche dal contadino della parte più sperduta del Paese che non condivide il loro estremismo”

Lucida, precisa, Cecilia Sala ha invitato nel suo intervento a ragionare sul contesto contemporaneo con un occhio sempre fisso alla catena di cause ed effetti che la storia invita a stringere. Così, se è necessario considerare che l’Ucraina di oggi è fatta di cittadini indipendenti, ed è diversa sia dall’Ucraina del 1991 sia dal paese dei tempi di Caterina di Russia, occorre anche tenere bene in testa ciò che significa quello che sta accadendo dal febbraio del 2022:

“Non dimentichiamoci del rischio che i militari ucraini, con il loro sacrificio, hanno impedito: ovvero quello che Putin arrivasse ai confini della Polonia, ovvero ai confini con noi. Se succedesse qualcosa di grave, o anche di gravemente simbolico per esempio in Moldavia, insicurezza e pericoli sarebbero il piatto servito all’Europa. Col rischio di problemi strutturali per tutti”.

Guardare la radio mentre si ascolta come si fa la radio: Fahrenheit a Pordenonelegge

Loredana Lipperini ha condotto le interviste ad autrici e autori in diretta per Fahrenheit: approfondimenti, legami, anticipazioni in pillole di venti minuti; quasi una rassegna nella rassegna, con un costante afflusso di pubblico.

Loredana Lipperini con Michela Marzano per l’anteprima di Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa

Michel Bussi e il thriller domestico

Parte, dice Michel Bussi, da una figura classica della letteratura poliziesca il suo Tre vite una settimana (edizioni E/O): ovvero il morto non è ciò che si pensava fosse.

“Da qui ho deciso di spingermi in due direzioni più originali: Duvall non solo aveva una seconda vita, ma anche una terza. E ritenevo interessante che l’inchiesta fosse portata avanti dalle tre mogli, come un valzer in tre tempi: ognuna pensava di avere sposato l’uomo perfetto. Così solo il lettore, dall’alto, riesce a seguire l’indagine nel suo insieme”

A chi gli chiede se le differenze di questo nuovo romanzo avranno un seguito, Michel Bussi non concede una risposta netta:

“Ho scritto un ventina di romanzi che hanno protagonisti maschili: potrei riempirci un commissariato intero. Però, mi tocca dirlo, i miei eroi maschi si rivelano sempre un po’ codardi; sono le donne che riescono ad arrivare in fondo. Katell, l’investigatrice di questa storia, è franca, diretta, molto criticona. Mi chiedono in molti se continuerà con le indagini, ma mi sto ancora chiedendo se voglio che torni”

E la poesia? C’era anche quella (eccome!)

Antonella Anedda presentata da Antonio Riccardi, i finalisti del Premio Strega Poesia, i poeti dei vent’anni e, tra le novità editoriali, le uscite di Laura Pugno e Gilda Policastro (La distinzione), presentate da Franca Mancinelli.

Le foto del reportage sono di Alberto Bogo.

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