Alla Fondazione Portaluppi, già magnifico studio dell’architetto, sono esposti progetti e modelli che hanno ridisegnato il volto di Milano nel Novecento.
Fine degli anni Venti del Novecento. Su una Milano in cui «tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti […], salvo forse i connotati del Buon Gusto» si sta imponendo «l’avvento rigeneratore dei Portaluppi, dei Gio Ponti». Le citazioni sono da Carlo Emilio Gadda, che si farà a lungo alfiere nei suoi scritti dei valori trasmessi dalle architetture di Ponti, «l’architetto che non firma Giovanni», e Piero Portaluppi (1888-1967), il «Barbarossa», soprannome conquistato dopo la pubblicazione, insieme a Marco Semenza nel 1927, di una sorta di canzonatorio piano regolatore dal titolo Milano com’è ora, come sarà. E se è stata riconosciuta (Contini docet) una «funzione» Gadda in letteratura, è certo da riconoscere nell’architettura milanese dei decenni che corrono dal periodo fascista al dopoguerra una «funzione» Portaluppi. Lo stile, personalissimo e riconoscibilissimo dell’architetto (che dello scrittore fu anche cugino), sovraccarico di arredi e decori e allo stesso tempo elegantemente sobrio, sottilmente ironico, sembra incarnare i gusti, e quasi il carattere, della grande borghesia meneghina che fa a gara per avere «case, ville e palagi» da lui firmati. Ed ecco sfilare i Crespi, i Borletti, i Fossati, i Campiglio, i Brughera, proprio come in una pagina gaddiana.
Nella mostra Portaluppi, architettura spettacolo: da Expo a Milano, i progetti di queste ville sono esposti in quello che un tempo fu lo studio dell’architetto, da lui pensato in ogni dettaglio, in un mirabile compendio delle sue predilezioni. Marmi ovunque, immancabili, di colori diversi: nero a nascondere il termosifone, che si trasforma in un elemento di sapore neoclassico, rosa e verde per gli stipiti delle porte e i tavolini… Fino alla stanza dove si ricevevano i clienti, con un pavimento composto di lastre tutte diverse che servivano anche da campionario. A Portaluppi si devono, prima e dopo la seconda Guerra, alcuni degli interventi più significativi tracciati sul nuovo volto della città: dal Planetario (voluto da Hoepli) alla pavimentazione del Duomo, dall’Arengario (con Muzio, Magistretti e Griffini) all’Università Statale, da Brera al Museo della Scienza e della Tecnica. Impressiona ancora oggi il maestoso arco che collega, come un cannocchiale prospettico, i Giardini Pubblici di Porta Venezia a via Salvini, nel palazzo costruito per la Società Buonarroti-Carpaccio-Giotto, dove un’architettura di ispirazione classica convive con forme e linee di derivazione secessionista e déco.
Bellissimi i disegni che accompagnano la genesi dei progetti, animati da figurine caricaturali che svelano l’abilità grafica e la vena ironica di Portaluppi, che fu anche autore di gustose vignette satiriche per il «Guerin Meschino». Un’ironia al vetriolo, davvero in linea con le sperimentazioni gaddiane, accompagna invece i disegni e gli acquerelli per progetti fittizi come Allabanuel, una presa in giro (si legga il nome al contrario) della moda dei giardini pensili sui palazzi che si va diffondendo già negli anni Venti, o gli edifici inventati per l’inesistente S.K.N.E. (falso acronimo per SCAPPANE), con grattacieli che si ergono su altri grattacieli in una immaginaria Manhattan infernale (Hellytown), a esorcizzare la vertiginosa e smodata fioritura delle città verticali: progetti visionari che tornano oggi di grande attualità. E genialmente visionario era il Wagristoratore: un albergo-ristorante, questa volta realizzato per la società anonima della Formazza nel 1930 e purtroppo distrutto dai tedeschi, per paura che si trasformasse in un rifugio di partigiani. Da un pittoresco chalet si protendevano, sospesi a sbalzo, due veri vagoni ferroviari dove venivano serviti i pasti. Furono rocambolescamente trasportati fino ai 2318 metri di quota del passo di S. Giacomo in Val Formazza con un’impresa degna di Fitzcarraldo.
Portaluppi, architettura spettacolo: da Expo a Milano, Fondazione Portaluppi, fino al 31 ottobre 2015.
Immagine di copertina: Piero Portaluppi, Hellytown, 1926 (non realizzato).