Con autori come Carrére, Ernaux e Knasugard stiamo arrivando all’era della post-fiction. Cos’è il romanzo-saggio? e da dove viene?
In questi ultimi anni si sta definendo e prendendo forma una nuova strada nello sterminato regno della letteratura e la direzione appare chiara: stiamo assistendo in modo sempre più deciso al superamento della separazione fra fiction e non-fiction, a favore di un territorio più sfumato e dai confini molto malleabili. Per dare un nome omen a questo modo di scrivere, potremmo parlare di romanzo-saggio.
Si può trovare una sorta di manifesto di questa tendenza in Reality Hunger di David Shields. Shields, infatti nel 2008 scriveva di come non abbia più molto senso il romanzo classico, quello che impiega le tradizionali convenzioni narrative, come uno svolgimento più o meno facilmente delineabile. Per Shields, una più accurata definizione della realtà e della sua percezione è possibile soltanto andando oltre lo schematismo a cui è giunto il romanzo. Possiamo quindi vedere questa ennesima mutazione della narrativa come l’ultimo passo (ma, ovviamente, non il finale) che dal romanzo moderno ha cercato sempre nuovi modi di re-inventarsi e di rappresentare non più la realtà in sé, quanto l’espressione di una esperienza di realtà.
Non è un caso che molti di questi libri vengano inseriti sotto il neo-cappello della post-fiction. L’uso di molteplici nomi dà l’idea di quanto questo fenomeno sia ancora nuovo e malleabile. Il primo censimento, se così possiamo chiamarlo, è stato fatto dal critico del New York Observer, Micheal H. Miller, e include autori come Ben Lerner, Sheila Heti, Tao Lin. Autori che in Italia, tranne per l’eccezione recente di Lerner, sono purtroppo poco conosciuti e altrettanto poco tradotti. Più fortuna, invece, hanno avuto libri come Il regno di Emmanuel Carrére, Gli anni di Annie Ernaux e l’opera-mostro La mia lotta di Karl Ove Knausgård.
Ma prima di parlare di questi autori facciamo un passo indietro.
PRODROMI ARGENTINI
Alcuni prototipi del romanzo-saggio possono essere rinvenuti lungo tutto il ‘900. Ne è un esempio l’opera omnia di Proust. Ma forse il vero e proprio precursore lo si trova nel racconto di Borges Storia del guerriero e della prigioniera, contenuto nella raccolta L’Aleph, e scritto nel 1949. In appena quattro-cinque pagine, lo scrittore argentino contrappone e riverbera l’una nell’altra, la storia (vera) del barbaro Droctulft che alle porte di Ravenna abbandonò il proprio popolo per schierarsi dalla parte degli assediati, e il racconto (vero?) dell’incontro fra la nonna paterna emigrata negli Stati Uniti con quello di una donna indiana.
Tralasciando colpevolmente da parte lo struggente paragone che sta facendo Borges, concentrandoci unicamente su un’analisi per così dire formale, possiamo ritrovare in questa manciata di pagine la definizione perfetta di romanzo-saggio. Troviamo infatti ad esempio la cura certosina nel citare le fonti nell’esporre la vita di Droctulft: una poesia di Benedetto Croce, un’incisione su una tomba. Tutta la prima parte del racconto, d’altronde, sconfina nella storiografia e nella filologia. Lo stesso Borges definì questo racconto “quasi un saggio”.
D’altra parte è impossibile ignorare la componente narrativa. Innanzitutto, nel raccontare il momento di conversione di Droctulft alla vista di Ravenna, una sorta di illuminazione sulla via di Damasco, che non a caso inizia con un emblematico “immaginiamo”. Ma soprattutto nell’incontro fra le due donne secoli dopo. Un aneddoto, questo, la cui veridicità è quantomeno dubbia. Fondamentalmente, sia nella struttura che nelle fonti è narrativa pura. O meglio, è importante precisare, una forma riconducibile a una sorta di autobiografia.
Quindi, in Storia del guerriero e della prigioniera, Borges mette in luce i tre punti cardini del romanzo-saggio: una soggetivizzazione del saggio, un’oggetivizzazione del romanzo, una fortissima declinazione autobiografica.
CARRERE: IL (MIO) REGNO
La stessa carriera letteraria di Emmanuel Carrère può essere suddivisa in due grandi tronconi: uno principalmente narrativo e di fiction che ha culmine nel 1995 con La settimana bianca e un secondo, sempre più votato alla commistione fra saggio, narrativa e autobiografia.
Il regno, uscito a inizio 2015 per Adelphi, rappresenta perfettamente questo suo nuovo percorso. Intriso fino a strabordare dell’ego (mai propriamente definibile piccolo) di Carrère, Il regno si presenta inizialmente al lettore come un saggio sul cristianesimo delle origini, in particolare su Luca e Paolo. Eppure, le prime cento pagine sono dedicate alle motivazioni che hanno portato lo scrittore francese a scrivere “Il regno”. Ovvero, sono dedicate unicamente a Emmanuel Carrère stesso, alla sua vita, e solo perifericamente alla sua fede.
Sotto questo punto di vista il saggio-romanzato deve molto a tutte quelle teorie post-strutturaliste, da Foucault in poi, passando per le ricerche etnografiche, in cui il ricercatore non può più scomparire. Ma dove, anzi, acquista un peso e una responsabilità nei confronti non solo del lettore, ma anche verso la materia trattata. L’io dell’autore (o del ricercatore) deve essere quindi sempre ben presente nella mente del lettore, proprio perché è attraverso quell’io, con le sue idiosincrasie e defezioni, che la realtà viene filtrata. Quindi un saggio storiografico sulla Bibbia diviene, per necessità, un libro sulla fede di Emmanuel Carrère.
D’altronde, Il regno, e il saggio-romanzato in genere, continua sulla scia di destrutturazione della realtà, dal post-modernismo ad oggi: non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Però, si aggiunge ora un punto fermo in quello che sembrava un mare in tempesta: l’io. Un io forte, come è emblematicamente quello di Carrère, è in grado di filtrare e interpretare i fatti e i suoi residui, restituendone una visione privilegiata. Nel saggio-romanzato si fa, cioè, prevalente la voce del narratore.
ERNAUX: I (NOSTRI) ANNI
Gli anni di Annie Ernaux può apparire agli antipodi rispetto l’esperienza di Il regno di Carrère. Se, infatti, nel saggio dello scrittore francese una materia storica veniva contaminata e filtrata dalla sua profonda soggettività, Gli anni si prospetta come un’autobiografia che però si fonde e liquefà nella storiografia.
Le prime pagine, in questo caso, sono di un’intimità spaventosa. Eppure, nel momento di scrivere della sua vita, dall’infanzia fino ai sessant’anni, Ernaux scioglie la propria biografia all’interno di una storiografia maggiore. La scelta di passare alla prima persona plurale, il noi, è dovuta non solo alla motivazione filosofica che ognuno è più persone man mano che gli anni passano (il mio dell’infanzia, quello dell’adolescenza, quello dei trent’anni, e così via), ma è anche un riconoscimento che la vita del singolo sia profondamente legata a quella di tutta la società che lo circonda. La biografia è sempre una storiografia, per Ernaux.
È interessante notare anche come nel caso di Gli anni sia dedicata particolare attenzione al processo che porterà alla stesura del libro, in questo caso un progetto che sollazzerà nella mente di Annie Ernaux per quasi quarant’anni. Un’altra caratteristica, quindi, del romanzo-saggio, che va di pari passo con la centralità della soggettività, è quest’occhio sul libro come scrutare cantiere aperto.
Per riassumere la propria vita, Ernaux non può limitarsi unicamente all’esposizione degli eventi che l’hanno composta: l’infanzia, il collegio, il matrimonio, il divorzio. Di fatto, l’io e la sua storia non si riducono a una cronistoria personale, ma è comprensibile unicamente in una storiografia di più ampio margine, proprio perché la realtà è un costrutto condiviso e sociale. Così da una vicenda personale e individuale si passa a un racconto più ampio e, in parte, oggettivo. Carrère e Ernaux, in fondo, partono dalla stessa premessa formale: la necessità di un’ibridazione letteraria per poter restituire la complessità della vita (spirituale e biografica).
KARL OVE E IL PATTO CON IL DIAVOLO
Karl Ove Knausgård ha raccontato in diverse interviste come si sia trovato in un momento di grave crisi creativa, fino a quando non ha deciso di compiere un vero e proprio patto con il diavolo, ignorando ogni regola del buon senso e della civile convivenza, scrivendo in totale onestà della propria vita e di riflesso di quella delle persone che ama (o che odia). Nasce così La mia lotta.
L’autobiografia in questo caso è frantumata, non si segue un percorso propriamente lineare, ma anzi sembra quasi di sprofondare all’interno di scatole cinesi, flashback dietro flashback, spesso interrotti e iperminuziosi. E’ proprio questa minuziosità che dà il forte tono letterario all’opera: Knasugård, infatti, fa del suo vissuto un’opera di letteratura, estraendolo, in parte, dal flusso dei ricordi, oggettivandolo. Il filo conduttore, il presente se vogliamo, è la scrittura dei sette volumi che compongono La mia lotta.
Come in Carrère e Ernaux, anche al centro dell’opera-mostro di Knasugård vi è l’autobiografia. Questa ricorrenza si può spiegare con la necessità da parte dell’autore di ancorare la costruzione del personaggio e del romanzo a una psicologia forte, resistente alle derive saggistiche. Che porti alta la bandiera narrativa. Ovvero, l’io dell’autore. Quando questo non accade, quando cioè il peso saggistico prende il sopravvento il rischio è di dar vita non a un romanzo, bensì a un pamphlet (si veda Sottomissione di Houllebecq). È, cioè, l’esistenza (reale) dell’autore a dare corpo e spessore a quella del romanzo.
Il romanzo-saggio è quindi una forma ibrida, che cerca di conciliare istanze narrative a altre più prettamente saggistiche. Il sottotesto di questa nuova tendenza è che per restituire una completa percezione della realtà non bastano le convenzioni narrative classiche, dove anzi la struttura narrativa risulta particolarmente indebolita, ma si richiede un passo in più: un vero e proprio melting pot letterario. La sfida che si trova ora di fronte la letteratura è quella di superare il confine fra fiction e non-fiction, divenendo sempre più onnicomprensiva, abbracciando il dispiegarsi di tutta una molteplicità di –ologie.
Che vada in questa direzione anche l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura alla giornalista Svjatlana Aleksievic?