Un viaggio nei territori della postfiction: docu-fiction e mockumentary fra film, serie tv e letteratura
Se nel 1700 fossero esistiti il cinema, la letteratura moderna e la televisione, e se Linneo, all’anagrafe Carl Nilsson Linnaeus, si fosse dedicato a classificare la produzione culturale anziché gli esseri viventi, probabilmente i due superregni, da cui generare tutte le altre classificazioni, sarebbero stati il documentario e la fiction. Questo perché, avrebbe spiegato laconicamente il naturalista svedese, essi divergono per etica, struttura e linguaggio fondante. Dove, infatti, il documentario mette al centro la fedeltà alla realtà (o, comunque, a una delle sue versioni), la fiction predilige la narrazione e il racconto. A qualsiasi critica di estrema semplificazione, Linneo avrebbe semplicemente fatto un gesto veloce con la mano e sorvolato.
Ma come ogni imponente (e paradossale) classificazione ipotetica, anche quella della produzione culturale sarebbe stata soggetta all’infiltrazione e alla contaminazione. Ovvero, allo strabordare di un superregno nell’altro. In pratica all’utilizzo di tecniche documentaristiche all’interno della fiction, e, vice versa, di strumenti di fiction nel documentario.
(Linneo, a questo punto, avrebbe già iniziato a fare orecchie da mercante, trovando una scusa per lasciarci soli con la nostra ibridazone)
REALITY HOLOCAUST
I mockumentary, o finti-documentari, sono l’esempio principe dell’infiltrazione del documentario nella fiction. Il genere nasce principalmente come cinematografico, un esempio in campo letterario è l’ultima parte de L’invisibile ovunque di Wu Ming (di cui abbiamo parlato qui), ma la letteratura su carta deve ancora esplorare fino in fondo questo nuovo territorio.
Il mockumentary vuole far passare fatti di finzione per reali. Le tecniche sono diverse. Una, per esempio, è la costruzione di un vero e proprio documentario impossibile come Zelig di Woody Allen, dove un uomo assume le caratteristiche di chiunque lo circondi. Un’altra è ben esemplificata da tutto il filone Blair Witch Project, che mette in scena il ritrovamento di un finto filmato amatoriale, le cui didascalie iniziali lo presentano come reale.
Ma, forse, il cortocircuito più fecondo (e celebre) si ha con Cannibal Holocaust, di Ruggero Deodato. Capostipite dei cannibal movie, racconta di come una troupe televisiva venga massacrata dagli indigeni nell’Amazzonia più profonda, e del ritrovamento dei loro filmati. L’idea particolarmente felice di Deodato fu quella di imporre agli attori della troupe trucidata di non farsi vedere, mettendo in giro la voce che i video ritrovati fossero reali (trucco poi ripreso vent’anni dopo anche da The Blair Witch Project). Il realismo della messa in scena, unito all’insistenza di queste voci, fu talmente convincente che Deodato fu costretto dal tribunale a far comparire gli attori e dimostrare che no, quello non era un documentario, ma solo un’opera di fiction. Nonostante l’esibizione dei viventi, il rischio di galera rimase comunque particolarmente alto, in quanto le uccisioni degli animali mostrate nel film, erano reali. In Cannibal Holocaust la contaminazione non è conchiusa nel film, ma si diffonde alla realtà stessa.
Un buon mockumentary, quindi, richiede allo spettatore un patto diverso rispetto a quello della sospensione dell’incredulità tipico delle opere di fiction. Non si accontenta, cioè, che lo spettatore consideri coerenti e realistici quei fatti all’interno del mondo narrativo. Usando stratagemmi più o meno arzigogolati, più o meno convincenti, il mockumentary richiede allo spettatore di considerare ciò che vede come realistico e coerente rispetto alla propria realtà. Si va, così, a modificare, o per lo meno tentare di farlo, ciò che è considerabile possibile o credibile. Streghe, uomini mutaforma e cannibali non diventano solo possibili, ma reali.
ANATOMIA DI UN DELITTO
Per analizzare il fenomeno inverso, ovvero l’utilizzo di tecniche tipiche della fiction nel documentario, può essere utile partire da un esempio concreto.
The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst è stata, probabilmente, la miniserie imprescindibile del 2015. Composta da sei puntate, è un documentario sulla vita di Robert Durst, ricco ereditiero di New York, accusato di diversi omicidi. Il regista Andrew Jarecki non solo ricostruisce le vicende, ma, sorprendentemente, riesce a intervistare Durst stesso.
The Jinx nasce come serie televisiva puramente documentaristica. Ma, proprio perché il lungo racconto deve essere diviso in sei puntate trasmesse settimanalmente, vi è la necessità di mantenere alta l’attenzione dello spettatore settimana dopo settimana. Non è un caso, infatti, che molte serie televisive documentaristiche siano per lo più composte da puntate autoconclusive e slegate. Per fare questo, The Jinx utilizza tecniche tipiche del racconto crime, in particolare la suspense e l’indagine.
La suspense è determinata, innanzitutto, da una posizione di svantaggio dello spettatore. Chi guarda, infatti, sa sempre qualcosa in meno del narratore, ovvero il regista stesso Andrew Jarecki. I vari crimini, per esempio, vengono presentati in ordine cronologico, predilegendo la sorpresa all’introduzione. Di fatto, quindi, anteponendo la tecnica narrativa a quella documentaristica. Questo clima di incertezza è favorito, inoltre, dall’estrema ambiguità fra colpevolezza e innocenza di Robert Durst. Lo spettatore è catturato in una sfida: si ritrova puntata dopo puntata, a decifrare i diversi indizi per scagionarlo o condannarlo.
The Jinx è, a tutti gli effetti, una serie crime. Mistero, indagine, e risoluzione, punti saldi di ogni racconto giallo, si ritrovano nella serie. A dispetto della sua natura documentaristica Jarecki, infatti, non è soltanto il regista ma un vero e proprio investigatore, che, solo nella puntata finale, collegherà tutti i pezzi del puzzle per lo scontro conclusivo con Durst. Questo perché nonostante The Jinx voglia rappresentare la realtà, non esita a utilizzare e a fondarsi su un linguaggio narrativo di genere che gli regala una maggiore attenzione del pubblico.
MIA MADRE, ANNA KARENINA
Un altro aspetto particolarmente interessante di The Jinx è la figura stessa di Robert Durst. Aiutato da una costruzione estremamente romanzesca, concentrata sui suoi tic e la sua presenza scenica, Durst s’impone ben presto allo spettatore come vera e propria figura mefistofelica. Spesso a metà fra realtà e finzione.
Su questa dualità si fonda il bel libro di Peter Schneider, Gli Amori di Mia Madre. Schneider cerca di ricostruire la figura della madre attraverso la lettura delle lettere che scriveva a suo padre e ai suoi amanti. La donna, morta quando Schneider aveva appena otto anni, era sempre stata per lui un mistero insolubile, fino alla decifrazione della calligrafia di quella corrispondenza. La figura che emerge è una figura tragica, devastata da emozioni viscerali e indomabili, forse malata di depressione (ma, come dice l’autore stesso: chi durante la Seconda Guerra Mondiale non ne soffriva?), che trovava l’unico sfogo nella scrittura di lettere appassionate quanto disperate.
E’ interessante notare come, nella quarta di copertina dell’edizione italiana, la figura della madre venga paragonata a Emma Bovary o Anna Karenina, per la sua “figura tragica e coinvolgente” (d’altronde, non è un confronto peregrino). Nel dipingere la complessa psicologia della madre, Schneider ricorre costantemente a interi estratti della sua corrispondenza, punteggiati da spiegazioni dell’evolversi della vita quotidiana e, in particolare, dell’arzigogolata, e indefinibile, relazione amorosa fra la madre, il marito, e il migliore amico di quest’ultimo. Quella che compie Schneider è una vera e propria esegesi della vita della donna e delle sue lettere. Il risultato è l’affresco, malinconico e dolce, di una donna in bilico fra realtà e fantasia. Non va mai dimenticato, infatti, che quello che si legge è la ricostruzione che ne fa Schneider, quindi per definizione imperfetta e
incompleta. La madre non sarà mai veramente reale, così mai totalmente immaginaria. Contaminare, interpolare, documentario e fiction permette di rendere questa dualità.
DI CLASSIFICAZIONE E IBRIDAZIONE
Se con il mockumentary si crea un cortocircuito fra realtà e finzione, dando uno statuto reale a ciò che non potrebbe esserlo, usando tecniche narrative nel documentario si rende, in parte meno reale (o realistico) ciò che invece lo è. Ciò permette, allo spettatore, di non limitarsi unicamente a comprendere gli eventi a cui sta assistendo. Ma a co-partecipare alle vite dei personaggi. Questo perché non si fa più appello unicamente al senso di giudizio morale e intellettuale dello spettatore o lettore, bensì alla sua presa emotiva ed empatica. Interpolare strumenti narrativi al documentario fa cadere ogni distanza fra noi e l’Altro. Altro che non è più unicamente una persona, ma che diventa personaggio.
Per tornare alla metafora biologica da cui si è partiti, proprio come nella letteratura contemporenea, in cui si sta assistendo a una sempre maggiore ibridazione di linguaggi e forme, così l’interpolazione e l’ibridazione fra diverse categorie, in particolare documentario e fiction, permette un’espressione ben più feconda e fertile, che una rigida (e forse sterile) divisione a compartimenti stagni. Si viene così a determinare tutto un nuovo genus vivente, in cui ha sempre meno senso distinguere e categorizzare forme e contenuti. Con gran pace di Linneo.
[Leggi anche il primo intervento sulla Post-fiction qui]