Continua il nostro viaggio nella geografia della post-fiction. Oggi viaggiamo nei territori dell’autofiction insieme al “Maestro Utrecht” di Davide Longo, accompagnati da David Shield, Maurizio Ferraris, Michael M. Miller e Julio Cortazar.
“THE RISE OF POST-FICTION”
Tutti, più o meno, sanno com’è andata. Un critico del New York Observer, tale Michael H. Miller, scrive un articolo a proposito di alcuni autori americani – fra gli altri: Ben Lerner, Sheila Heti e Tao Lin – le cui opere presentano tratti comuni e una spiccata tendenza all’originalità rispetto ai romanzi dei puristi (si legga Jonathan Franzen, capofila della cerchia “old school”) che li accompagnano sugli scaffali delle librerie. Per Miller è giunta l’epoca della post-fiction, in cui la barriera che divide la finzione dalla realtà si fa porosa e permette a quest’ultima di penetrare in quantità fra le pagine. Il risultato? Uno stordimento, di cui il lettore è preda, incapace com’è di distinguere quali righe, quali dialoghi, quali nomi propri o fatti siano avvenuti nel mondo reale e quali invece siano frutto della fantasia dell’autore, eredità del suo passato di romanziere puro.
Da qualche anno è il tema del momento, la corrente letteraria più discussa online in decine di articoli: in ognuno di questi non manca mai una carrellata di nomi, titoli e riferimenti atta a fornire le coordinate di tutto ciò che può essere, con le dovute differenze ed eccezioni, post-fiction. Emmanuel Carrère, Annie Ernaux e Karl Ove Knausgård sono fra i principali protagonisti, seguiti a ruota dalle opere di Ben Lerner, l’autore che ha dato alle stampe il libro più discusso di tutti – Nel mondo a venire (Sellerio) –, spesso indicato come massima espressione del sottogenere postfinzionale più diffuso assieme al memoir: l’autofiction. In genere non mancano Walter Siti e il Manifesto del Nuovo Realismo (Laterza) del filoso Maurizio Ferraris, testo quest’ultimo che assieme a Fame di Realtà (Fazi) di David Shields compone la coppia più citata nella diatriba riguardante lo statuto del realismo nella letteratura post-postmoderna.
Infine, nel 2015, l’Accademia svedese assegna il premio Nobel per la letteratura a Svetlana Aleksievič, giornalista bielorussa che proprio autrice di romanzi à la Jonathan Franzen non è. Alcuni interpretano la scelta di premiare l’autrice di Ragazzi di zinco (E/O) come una dimostrazione del cambio di direzione intrapreso della letteratura mondiale, altri come l’ennesima svista dell’istituzione scandinava, non nuova a candidature e premiazioni alquanto singolari. Nobel a parte, è opinione diffusa che questo nuovo filone (che alcuni ritengono non essere, a dire il vero, proprio freschissimo) rappresenti uno dei sentieri più interessanti su cui la letteratura possa, negli anni a venire, continuare il suo percorso millenario. Se questo sia un dato di fatto (non sappiamo se inemendabile o meno, con buona pace di Ferraris), lo dirà soltanto il tempo e le opere che seguiranno.
LE AVVENTURE DI DAVIDE LONGO
Nuovo testo che aggiunge l’ennesima pennellata tricolore alla lista di opere targate post-fiction è Maestro Utrecht di Davide Longo. Pubblicato per la collana ViceVersa della giovane ma lanciatissima casa editrice milanese NEE, il nuovo libro di Longo è caratterizzato dalla presenza di due protagonisti più uno: il primo è chi dà il nome all’opera, il misterioso maestro Utrecht, geniale come Amélie Pulain e strambo come Forrest Gump; il secondo è Davide Longo stesso, scrittore piemontese e insegnante di scrittura alla Scuola Holden di Torino; il terzo è una parvenza, ciò che resta di un giovane ragazzo italiano morto in Olanda in circostanze misteriose. Col passare delle pagine, quest’ultimo si rivelerà essere spunto dell’intera vicenda e al tempo stesso sua conclusione, tratto finale del cerchio che unisce realtà e finzione.
Il libro – così come il concetto stesso di autofiction – appare spaccato in due. Fin da subito appare chiaro che la struttura di Maestro Utrecht segue due linee narrative: da una parte la ricostruzione del peregrinare di maestro Utrecht attraverso l’Italia settentrionale e l’Europa, dall’altra gli impegni lavorativi di Davide Longo, chiamato in Olanda a scrivere racconti e articoli per alcuni committenti del posto, impegni che lo porteranno sulle tracce di un mistero in grado di stuzzicare la sua immaginazione di romanziere. Con un abile gioco lessicale e narrativo, l’autore riesce a suddividere le due storie: laddove la prima è ricamata con stile soffice, a tratti surreale, e si regge sulla figura bizzarra quanto adorabile di maestro Utrecht, la seconda pare un diario, un racconto in prima persona che trasuda un’abbondante dose di “realismo quotidiano”, fatto di camere d’albergo, ricerche su Wikipedia e scadenze lavorative.
La spaccatura appare netta nella prima parte del libro, fino a quanto la lettura porta alla luce una serie di fugaci connessioni, leggere sovrapposizioni e timidi rimandi. I binari, per così dire, iniziano a perdere la loro natura parallela e iniziano a intrecciarsi in modo costante, costruendo una rete intricata di relazioni che, di fatto, costituiscono la spina dorsale dell’intera narrazione. Inoltre, col passare dei capitoli, il lettore inizia a intravedere alcuni misteri che chiedono a gran voce di essere svelati e comincia a chiedersi quando i nodi verranno al pettine. Chi è maestro Utrecht? Che storia nasconde il cadavere di Stefano M***, il giovane italiano ritrovato senza vita in Olanda? Quale filo lega questi due interrogativi a Davide Longo?
LA QUARTA DIMENSIONE
In Maestro Utrecht sono presenti tutti gli stilemi propri dell’autofiction, quelle caratteristiche di cui parlava Michael H. Miller nel suo pluri-citato articolo pubblicato qualche anno fa dal New York Observer e che compaiono in ogni articolo riguardante Ben Lerner o gli altri autori appartenenti a questo filone. Nello specifico, sono storie che hanno in comune la tendenza a far nascere interrogativi nella mente del lettore, punti di domanda riguardanti non soltanto il materiale narrativo, ma anche il legame che questo ha con la realtà.
Quanta realtà c’è in questo libro? Davide Longo è stato veramente a Utrecht? Ha veramente scritto articoli e racconti per committenti olandesi? Ogni lettore può afferrare la tastiera e compiere una rapida ricerca online, tentando di scremare ciò che è reale da ciò che pare essere inventato di sana pianta… ma a quale pro? I benefici sembrano vani, almeno quanto quelli del rintracciare l’autore che si nasconde dietro al nom de plume Elena Ferrante. Tuttavia, è innegabile che traslocare così tanta realtà – o parvenza di essa – in un libro aumenta in modo esponenziale una proprietà che potrebbe essere definita “quarta dimensione del libro”. Si tratta di una dimensione che porta con sé mistero, curiosità, nuove connessioni e quello stordimento che prende il lettore, intrappolato com’è fra ciò che gli è raccontato e ciò che non conosce. È la dimensione che rende il libro un oggetto quadrimensionale, non più fine a se stesso ma strettamente dipendente dalla realtà.
Che cosa si cela dietro alla volontà di un autore di chiamare il proprio protagonista come se stesso? Nelle opere di autofiction non assistiamo alla messa in pratica di una costante che fu del postmoderno. In queste opere infatti non troviamo scritto a caratteri cubitali: “questo è un libro”, “questa è un’opera di finzione”, “questo che stai leggendo è una costruzione narrativa, non è la realtà”. La quarta dimensione annulla questa necessità, la mette da parte, appiattisce lo scoppiettante universo multiforme proprio della rappresentazione postmoderna per legare in modo inestricabile libro e realtà, includendo in un unico testo la realtà e la sua rappresentazione. La quarta dimensione è, in sostanza, ciò a cui ha rinunciato completamente chi si nasconde dietro l’identità fittizia chiamata Elena Ferrante, che ha dato alle stampe libri di pura finzione a cui manca il cordone ombelicale con il mondo reale così come lo intendono gli scrittori che si cimentano nella post-fiction.
FORMICHE E FUNGHI
Le formiche tropicali appartenenti ai generi Atta e Acromyrmex sono note in tutto il mondo con il soprannome di tagliafoglie. La ragione è presto detta: le operaie di tali specie procacciano il cibo per la colonia tagliando foglie con le loro robuste mandibole per poi trasportarle in fila indiana al formicaio. La scena è nota agli appassionati di documentari naturalistici, i quali sanno bene che le foglie non sono il cibo vero e proprio di questi insetti, bensì costituiscono il substrato sul quale, al buio e al caldo della tana interrata, cresce il vero alimento: un fungo di cui le formiche sono coltivatrici e incessanti consumatrici.
Questa metafora naturalistica, che occupa il sesto capitolo di Maestro Utrecht, è una vera e propria lezione di scrittura della Scuola Holden, un passaggio che rende il lettore un allievo di Davide Longo o uno studente che apprende il meccanismo che sta dietro alla creazione stessa di una storia. È proprio in questo passaggio risiede la chiave di lettura stessa dell’intero romanzo e dell’autofiction nella sua versione “longhiana”. Maestro Utrecht è la storia della genesi di una storia e del suo successivo sviluppo: contiene al tempo stesso il racconto della sua ideazione e il risultato di questo processo creativo. Lo scrittore (piccola formica) tagliuzza e porta a casa porzioni di foglie che ha scovato durante il suo peregrinare, ma non le utilizza così come sono, bensì le elabora affinchè su di esse e da esse si sviluppino le storie che egli racconta svolgendo la sua professione (i funghi della metafora). Per evitare di mostrare solo e soltanto il fungo, Davide Longo non ha potuto fare altro che scrivere un’opera di autofiction, puntando la lente d’ingrandimento sopratutto sulla piccola formica intenta nel lavoro di ritaglio, trasporto e coltivazione del materiale grezzo.
Maestro Utrecht è la ricostruzione narrativa dell’origine e dello sviluppo di un’opera finzionale. In principio l’alternarsi di capitoli evidenzia la divisione che sussiste fra le due storie, apparentemente distanti una dall’altra a causa dello stacco narrativo, tematico e stilistico che le separa. Ma è il procedere stesso della narrazione che getta luce prima di tutto sul passato e sottolinea, pagina dopo pagina, le connessioni che collegano le due storie. La chiave stessa del romanzo, quella che ne risolve i misteri e chiarisce le identità dei personaggi, rivela come esso ha avuto origine, come ha preso forma nella mente dello scrittore, nelle vesti di autore e di personaggio e come si è evoluto nel tempo, giungendo infine alla sua forma definitiva. L’idea è che la storia porti il lettore a leggere la storia che ha ispirato la genesi della stessa, immaginata e scritta, dopo quell’epifania da formica industriosa. Se durante il postmoderno ci si concentrava sul fungo, precipitandosi a far notare quanto fosse artificiale, multi-strato e personale, nell’autofiction il fungo è soltanto una parte del tutto, perché diventa importante anche la foglia.
LA VERITÁ DI UTRECHT
Julio Cortàzar sosteneva che: «La letteratura non è nata per dare risposte ma per fare domande, per inquietare, per aprire l’intelligenza e la sensibilità a nuove prospettive del reale». È chiaro che l’autofiction nasconde in sé il germe della moda, pronto a corrodere il lavoro svolto se questo non presenta, in forma narrata, un tentativo di risoluzione dello stordimento di cui è preda il lettore – leggasi l’uomo – di fronte al miscelarsi di racconto e realtà in un’unica entità narrativa, dotata di una quarta dimensione pregna di domande e misteri.
Il nuovo romanzo di Davide Longo, contenente storia e genesi della stessa, riporta l’attenzione sul senso più antico del narrare: la necessità di dare una spiegazione, cioè una storia, a qualcosa che è misterioso, che appare oscuro. Maestro Utrecht è un cantiere aperto, una finestra sull’arte di costruire storie e sullo sviluppo di questo processo. Di fronte alle domande che sorgono, capitolo dopo capitolo, il lettore può afferrare molte risposte, una delle quali è sicuramente la seguente: realtà e finzione si compenetrano, oggi più di ieri, ma come nella narrazione mitica – che è «normazione dell’irragionevole» secondo James Hillman – un libro può servire a dare una storia a chi l’ha persa, preservando la memoria in modo più efficace di qualsiasi dato di fatto.
[leggi qui gli altri interventi sulla post-fiction]
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