Fidelio va in città, Fidelio va in tv. Per un ascolto consapevole (e una conversazione competente) ciò che occorre sapere sull’opera della prima scaligera
Pochi capolavori hanno subito tante mutilazioni e ripensamenti da parte del proprio creatore quanto Fidelio, in arrivo alla Scala per la prima di Sant’Ambrogio con l’accoppiata Barenboim-Warner. Nel repertorio più popolare solo il Don Carlo di Verdi è in grado di disorientare di più con le sue miriadi di possibili combinazioni, tra differenze di atti, scene e addirittura lingue. I numeri di Fidelio non arrivano a tanto, ma testimoniano comunque un impressionante travaglio artistico. Tre versioni, quattro Ouverture, continue inversioni tra scene e soprattutto perenni perplessità del pubblico fino al 1814, quando divenne finalmente un successo.
Oggi, dopo esattamente due secoli, possiamo considerare superato il pregiudizio che Beethoven non sapesse scrivere per le voci? Sì, ma non si può evitare di scorgere un’insicurezza nel genio di Bonn, almeno per quanto riguarda le dinamiche teatrali. Troppo occupato a cambiare le regole della musica occidentale, Beethoven non si sentiva a suo agio nel più modesto progetto di costruire un personaggio: questo era il suo problema, non la voce in sé. La sua è una musica universale, forse addirittura musica per l’anima, ma non per un’anima. Il globale è cieco di fronte al particolare, e per capirlo non bisogna essere esperti di teodicea seicentesca. Mozart era capace di incollare gli spettatori alla sedia facendo controllare al suo Figaro le misure di una stanza per farci stare il letto. Beethoven al contrario ha avuto bisogno di scomodare ciascuno degli ideali della Rivoluzione francese per sentirsi credibile nella sua unica opera. Ad esempio le scene più domestiche tra Marzelline e Jaquino non hanno quella malizia che servirebbe, e riescono a diventare grandi solo quando compare la sventurata Leonore-Fidelio, catalizzatore insieme al marito Florestan di tutta la qualità musicale dell’opera. E stiamo parlando di un libretto con travestitismi, ambiguità sessuali e di genere! «Continui a scrivere opere buffe!» disse Beethoven a Rossini quando si incontrarono. Perché non pensare che in quest’elogio si celasse un poco di invidia? Quanto si sarebbe divertito il pesarese con un soggetto del genere! Certo il Fidelio è solo semiserio, ma è in quel “semi” che sta la soluzione. Ciononostante Fidelio è un capolavoro musicale ricco di pagine indimenticabili. Diamo qui un elenco con il minimo indispensabile da studiarsi entro il 7, visto che Fidelio invade letteralmente tanti luoghi della città, va al cinema e in tv .
Barenboim inizia con la splendida Ouverture Leonore n° 2 del 1805, e non con quella definitiva del 1814 che viene eseguita tradizionalmente. Citiamo come esecuzioni di riferimento almeno quella di Klemperer del ‘63 e quella di Furtwängler del ‘47, concepite in modo diametralmente opposto: misurata ed elegante la prima, reboante e disordinatamente geniale la seconda.
Abbiamo poi il Quartetto del primo atto dopo l’entrata – parlata, dato che Fidelio è un Singspiel – di Leonore. Mir ist so wunderbar è la scena in cui si esplicita del tutto il malinteso d’amore tra Fidelio e la povera Marzelline: dopo una commovente introduzione degli archi le voci si presentano una a una, prima le signore e a seguire basso e tenore, accompagnati da magici pizzicati degli archi ai quali si aggiungono gradualmente i legni. Da sentire obbligatoriamente l’ispiratissima versione di Bernstein del ’78, oltre che ovviamente l’incisione insuperabile di Klemperer del ’62.
Ed ecco finalmente la grande scena di Leonore, che prende l’avvio con un focoso recitativo accompagnato, Abscheulicher!, cui segue un’aria dove le vocalità troppo leggere non hanno scampo. La Schwarzkopf ad esempio, per quanto regina, non convince del tutto proprio per una questione di vocalità, specie nella vivace sezione finale. Gwyneth Jones sarebbe tra le più adatte, ma è un po’ troppo valchiria per questo brano. Christa Ludwig vince il confronto, anche se si tratta comunque di tre esempi travolgenti. Il secondo atto si apre con un’introduzione orchestrale tra le più cupe dell’Ottocento, cui segue la prima apparizione di Florestan, Gott! Welsch’ Dunkel hier! Disperato, questo inconsolabile prigioniero rischiara il suo canto solo con il ricordo della moglie. Da segnalare, a parte i classici Windgassen, Vickers e Kollo, il bel Kaufmann che fa un crescendo sul Gott! iniziale da lasciare senza fiato.
Dopo il duetto Leonore-Fidelio O namenlose Freude! – da ascoltare almeno con tutti gli interpreti citati, divertendosi a cercare gli incastri realmente avvenuti tra loro – ecco che si sente la “tromba ex machina” di Don Fernando che salva la situazione e ci conduce verso il finale. Ed è proprio questo lo snodo cruciale e più difficile per un regista: il passaggio dalle oscurità delle segrete al trionfo della conclusione.
Ci attendiamo moltissimo dall’inglese Deborah Warner, il cui Death in Venice nel 2011 ha incantato tutta Milano e ci domandiamo se si troverà a suo agio anche nel serioso contesto teutonico. Quanto al saluto di Barenboim da direttore musicale, non poteva non essere beethoveniano, dopo le importanti integrali di sonate e sinfonie di questi anni. Se però il suo ultimo Beethoven è oggi – scomparso Abbado – insuperabile, sappiamo che le sue interpretazioni della fase Eroica–Quinta non sono sempre azzeccate. C’è da chiedersi dunque se si possa stare tranquilli…
[Appuntamento a martedì 9 dicembre per la recensione del Fidelio, sempre su Cultweek]