Per la Prima della Scala Riccardo Chailly dirige una Giovanna d’Arco in versione prefreudiana. Complici i registi Leiser e Courier
Se non si sapesse che Madama Butterfly aprirà la prossima stagione della Scala, spererei in un’Alzira, in un Corsaro o, per incrementare il giubilo di Maroni – già entusiasta della pulzella –, nei Lombardi alla prima crociata.
Il Verdi “di galera”, il mestierante, terso d’intenzioni e irriflessivo di stile, che di opere all’anno ne scriveva anche due: quasi nessuna un capolavoro, ma «brutta» – a dir di Budden, Mila e altri – è un’altra cosa.
Riccardo Chailly, Anna Netrebko e Francesco Meli schierati come il battaglione sacro tebano, sullo sfondo onirico tardo ottocentesco dei registi Moshe Leiser e Patrice Courier: buon successo di pubblico, critica, ma soprattutto suspence in città come per poche altre Prime, forse per il titolo così insolito, introvabile alla Scala, poco di più altrove. Questa Giovanna d’Arco di Sant’Ambrogio sembra preludere a una nuova Jeune Verdi Renaissance: non a caso tra i titoli più attesi di quest’anno c’è I due Foscari, con regia di Alvis Hermanis. Viva Verdi, viva i trentenni.
Tra gli spiritelli malvagi, la resurrezione della protagonista e l’assenza del rogo, i registi hanno lavorato sul bizzarro libretto di Temistocle Solera scommettendo proprio sui suoi punti deboli.
La scena si apre su una stanza da naturalismo francese alla Zola, e Giovanna è accudita come una paziente della Salpêtrière di Charcot – che inaugurò i suoi studi sull’isteria una ventina di anni dopo la stesura dell’opera. Così la Giovanna storica diventa il doppio allucinato della ragazza, il suo io sognato che muore sul rogo con l’incalzante tema battagliero in apertura dell’atto finale – magnifiche le proiezioni di Étienne Guiol. Infine si ritorna al presente e al padre che in abiti borghesi, seduto sul letto con la ragazza, le racconta una battaglia soltanto immaginata, subito prima che la follia la uccida.
Un Verdi prefreudiano, nella versione Dangerous method della coppia di registi: perché è solo il sesso – o la sua assenza – il fattore scatenante dell’isteria di Giovanna e della conseguente sublimazione religiosa. Così le sue voglie prendono forma sulle pareti della stanza, mentre il repressivo stendardo col giglio tenta di coprire le scene sporcaccione in una tenzone video tra Es e Super-io.
L’idea funziona ma tanti dettagli restano oscuri: i tentativi di suicidio di Giovanna e del re nel duetto, i diavoletti e angioletti messi in scena senza che poi facciano granché – allora meglio un’orgia pasoliniana da Racconti di Canterbury, inizialmente prevista, poi bocciata –, Gesù in persona che consegna la croce a Giovanna – «Joan died for somebody’s sins but not mine» canterebbe Patti Smith dal suo posto di platea. Sono tutte visioni allucinate della pulzella, giustificabili solo con la sua pazzia: non un buon alibi per far tornare i conti.
Altrettanti però sono i momenti memorabili: oltre alle proiezioni sempre efficaci e pertinenti – notevole lo straniamento delle ombre che non corrispondono a ciò che avviene in scena –, l’effetto della cattedrale di Reims sbucata dal nulla come in sogno, tutti i curatissimi movimenti delle masse – dal coro del Prologo che mette in guardia il re all’incoronazione – e infine l’apoteosi finale in cui letteralmente, per citare un Verdi più famoso, Si schiude il ciel. È senz’altro più interessante una soluzione come questa, magari imperfetta, a qualsiasi obsoleta, statica messa in scena decorativa medievalmente corretta.
Trionfo per Anna Netrebko, oggi forse l’unica Giovanna al mondo, dalla vocalità in equilibrio tra un fraseggio verginale e la baldanza più bellicosa: possenti i suoi recitativi, sicuri gli acuti – fino al Re nella cavatina –, perfetta la dizione.
Francesco Meli, dorato come un droide di Star Wars, delinea il giusto tormento del suo re, che non è solo un debole, ma nella disperazione dell’ultima aria dimostra una foga che va oltre l’imprecazione sfiorando la bestemmia – «Oh fosse inaridita nell’anima la fè».
Devid Cecconi sostituisce dignitosamente Alvarez e cresce nel corso dello spettacolo, fino a un ottimo duetto finale con la Netrebko che fa sentire echi di Giorgio Germont. Impeccabile il coro di Casoni.
La direzione di Chailly è perfino troppo ricercata: ci sono passaggi che forse andrebbero risolti con più inconsapevole imprudenza. Raffinatissimo il crescendo dei pizzicati nella cabaletta di Giacomo So che per via di triboli, e il concertato dell’incoronazione è avvolgente e opportunamente materico, così come il metafisico finale: anche il Verdi più sacro è sempre ben piantato in terra.
Eppure in tutta la prima parte si è sentito un calo della consueta veemenza del direttore, specie nel confronto con la Turandot della Prima di maggio: i tempi lenti e l’intenzione quasi dimessa entrano bene in sintonia con l’introspezione dello spettacolo, ma tolgono energia alla partitura – oltre forse a mettere in difficoltà i cantanti, per esempio Meli nella cavatina Sotto una quercia parvemi.
Fotografie di “GIOVANNA D’ARCO” – opera inaugurale Stagione 2015/16. Credit Brescia-Amisano / Teatro alla Scala