E’ passato con successo al Festival di Cannes 2022 “Sick of Myself” del regista/sceneggiatore norvegese Kristoffer Borgli, che ha dalla sua un’ottima protagonista, Kujath Thorpe, già brava in “Ninjiababy”. Qui ha lo sgradevole ruolo di Signe, ragazza affetta da un famelico desiderio di notorietà, che per raggiungerla si intossica di un farmaco bandito perché pericoloso. Risultato, finirà in piena luce sui media, ma per l’effetto devastante del medicamento sulla pelle. E sulla sua psiche.
La smania di protagonismo indotta negli ultimi decenni dai nuovi media, dalla tv a internet, da Facebook a Instagram, in numerosi protagonisti diffusi in tutto il mondo, ha avuto conseguenze patologiche, omicide e distruttive, spesso anche autodistruttive. E’ un tema che resta sempre di grandissima attualità e il cinema lo ha già molto frequentato, basti ricordare Re per una notte di Martin Scorsese, uno dei cineasti più intelligenti e attenti alla realtà, che immaginò oltre 40 anni fa il sequestro in diretta tv di un divo dello show-business, opera di un presentatore dilettante, lucido psicopatico, che voleva la sua mezz’ora di celebrità e le telecamere puntate su di lui.
Un’analoga, patologica spinta alla fama e al successo personale è al centro di Sick of Myself, secondo film del 38enne regista, sceneggiatore e montatore norvegese Kristoffer Borgli, passato al Festival di Cannes 2022 con un buon riconoscimento, che gli è valso la scrittura negli Usa per il suo terzo lavoro, Dream Scenario protagonista Nicolas Cage. Al centro del racconto c’è Signe (Kujath Thorpe, già vista, e anche lì con ottima prova, in Ninjiababy), giovane barista insoddisfatta e insofferente, sposata con un artista in rampa di lancio, Thomas (Eirik Sæther), non certo prodigo di attenzioni nei suoi confronti. Venuta a conoscenza degli spaventosi effetti collaterali di un ansiolitico russo, posto fuori mercato per la sua pericolosità, chiamato Lidexol, decide di farne uso in modo massiccio, nonostante il probabile effetto devastante sul suo organismo, per segnalare al mondo (dei media in primo luogo) la sua esistenza. Perché, come suole ripetere, “sono i narcisisti quelli che ce la fanno, alla fine”, frase preferita dell’ex presidente americano Trump, che certo anni fa gli ha portato fortuna.
Borgli introduce poi un secondo elemento in primo piano nel mondo di oggi, la malattia che si colloca quasi al confine con la disabilità. Perché fra gli effetti devastanti del farmaco c’è anche l’impatto distruttivo sull’aspetto esteriore di Signe, una deturpazione, forse mortale, della pelle che ne fa un’ottima possibile “testimonial” di una campagna di moda “inclusiva”, dedicata appunto a modelle “altre”. E soprattutto può finalmente portarla al grande pubblico. Con tanto di successiva autobiografia best-seller. Il finale, che segue alcuni risvolti negativi nelle vite dei protagonisti, si può considerare aperto. Protagonista poco eroica, cui è difficile volere (cinematograficamente) bene, Thorpe ha un certo potere magnetico, cattura l’attenzione dello spettatore nonostante l’effetto respingente di qualche eccesso “ideologico” dello script: ma funziona come il suo make up, accurato fino all’estremo.
Anche grazie a una regia ansiogena ma tutto sommato efficace, Sick of Myself (e sick qui ha un doppio significato, malata e stanca, sfinita) produce immagini raccapriccianti, difficili da dimenticare. Si muove su un crinale che sta tra il drammatico e il sociologico, agitando temi importanti con un taglio convinto, non privo di una nordica unidimensionalità per la quale rinuncia all’approfondimento ambientale e psicologico dei caratteri, Sul piano stilistico il regista mostra una notevole varietà di spunti, che arrivano fin quasi all’horror. Sulla pelle, è il caso di dirlo, della sua brava protagonista.
Sick of Myself, di Kristoffer Borgli, con Kristine Kujath Thorp, Eirik Saether, Fanny Vaager, Sarah Francesca Braenne, Fredrik Stenberg Ditley-Simonsen, Steinar Klouman Hallert, Ingrid Vollan