La morte improvvisa di Prince sollecita un bilancio sulla musica degli anni ’80. Decennio avaro di proposte memorabili, una certezza quell’epoca forse ce la consegna. Tutta la musica successiva che ha provato a sperimentare e contaminare deve moltissimo al genio di Minneapolis
Cosa resterà degli anni ’80? Molto poco, a parte Prince. Non è un’affermazione di circostanza, un omaggio a caldo al musicista di Minneapolis che pure lo meriterebbe, ma una constatazione
Anni strani, gli Eighties, sul fronte del rock e anche su quello della black music. Crollati tutti o quasi gli idoli del rock classico (ci sono, ci sono tutti, dagli ex Beatles agli Stones, da Clapton a Elton John, per non parlare di Bob Dylan, sono vivi e lottano insieme a noi ma sembrano più vecchi zii che fratelli maggiori: e comunque non sono un prodotto del decennio), esaurita la “spinta propulsiva” del grande assalto al cielo del punk e dei modernismi new wave, quegli anni vedono la frammentazione in mille rivoli del panorama musicale, senza che nessuno degli emergenti e degli emersi riesca a unificare la scena.
Mentre il rito del concerto, il mito dell’autenticità fatta di suono e sudore perde colpi (resiste, vistosissima eccezione, la canottiera di Bruce Springsteen che proprio negli ’80 pubblicherà tre dei suoi album maggiori, The river, Born in the Usa e Nebraska: ma il Boss si è imposto nel decennio precedente), è l’ora delle boyband e di una musica fatta anche di molti lustrini. E il live act, più che maratona musicale, diventa spettacolo a 360 gradi: il “vecchio” David Bowie sul fronte rock, l’emergente Madonna su quello pop. Nella scena hard si affermano i Metallica e i Guns’n’Roses.
La scena indipendente vede l’ascesa di nomi stimati e con uno zoccolo duro di fedelissimi, ma incapaci di mobilitare le folle planetarie: Sonic Youth, Husker Du, Pixies, X, Jane’s Addiction (e in Inghilterra i Joy Division). Della new wave resistono bene, fino a metà decennio, i Talking Heads, che al suono nevrotico e tagliente di Fear of music hanno aggiunto le contaminazioni funky ed etniche di Remain in light. Muovono i primi passi i R.E.M., ma sono ancora un gruppo indie che comincia appena a farsi notare, viaggiano su un furgone scassato e per arrivare al jet, ai contratti miliardari e agli stadi pieni dovranno attendere i ’90. Qualche altro nome, per quegli anni?
Dall’Inghilterra il classicismo sublime ma un po’ retro dei Dire Straits, negli Stati Uniti il cantautorato catramoso di Tom Waits che comincia ad abbandonare le forme classiche del blues e della torch song per sperimentare sonorità “concrete” e forgiare una sua cabaret-song postmoderna. Se fate bene i conti, i divi del decennio (le rockstar, l’espressione entra in circolo in maniera massiccia proprio allora) sono quattro, tre dei quali europei: gli irlandesi U2, che giocano la carta dell’americanità nel 1987 con The Joshua tree, gli inglesi Smiths con i loro testi acuminati e il chitarrismo inconfondibile di Johnny Marr, gli altrettanto inglesi e biondissimi Police con il loro (a volte pretenzioso) reggae bianco, e la ragazzaccia Louise Veronica Ciccone in arte Madonna (in misura minore, la buffa e stralunata Cyndi Lauper).
Se questi sono i vertici del pop e del rock, non stupisce che la black music prenda il sopravvento. Anche qui, non è che il panorama sia roseo: i cantanti che scalano le classifiche si attardano spesso e volentieri sulla lezione del pop-soul più patinato dei decenni precedenti (la regina è Whitney Houston, il reuccio Lionel Richie, quello di All night long), il vecchio funk di Sly & The Family Stone, di George Clinton, di James Brown e degli Chic è stato saccheggiato e banalizzato dalla dance music bianca, molte delle nuove sonorità (Miami bass, Chicago hip house, California hardcore) sono di nicchia e non diventeranno, Miami a parte, mainstream.
In questo panorama irrompono una vecchia gloria del Detroit sound più leggero e un giovane folletto di Minneapolis: Michael Jackson e Prince. Sono due geni e le loro vite parallele presentano straordinarie somiglianze: la vita familiare non esattamente facile e l’adolescenza non proprio idilliaca (figlio di divorziati sballottato tra un parente e l’altro Prince, bambino schiavizzato assieme ai fratelli da un padre padrone Michael Jackson: ricordate il Jackson 5? Lui era uno dei cinque), la vita appartata in villoni faraonici presidiati da guardie del corpo e i rapporti inesistenti o conflittuali con i media (per Prince anche con i discografici), l’abilità da performer a tutto tondo (non solo musicisti e cantanti, ma anche ballerini coreografi e registi, il perfezionismo non di rado maniacale nelle esibizioni live e nei dischi, l’ossessione di tenere tutto sotto controllo.
Diversissimo l’approccio alla musica: un pop perfetto e sapiente ma dal gusto spiccatamente adolescenziale – meglio, da Peter Pan, qualcuno dice da yuppie – e tutto di superficie quello di Michael Jackson, che è al tempo stesso musica e operazione di marketing rifinita. Il risultato è Thriller, album del 1982 che con 40 milioni di copie è il più venduto di sempre, artefice ed eminenza grigia dell’operazione il produttore Quincy Jones tra i ’50 e i ’60 è stato jazzista di vaglia (alzi la mano chi non ha mai sentito il suo Soul bossa nova, tormentone di quasi ogni trasmissione sportiva). Jackson dà consistenza musicale e spezie ritmiche al suo pop: iniezioni techno, cauti innesti funky, duetti mielosi da crossover planetario (con Diana Ross, con Paul McCartney).
Dove Jackson punta a rassicurare, ad essere ecumenico, Roger Nelson in arte Prince, senza disdegnare la classifica (il bellissimo Purple rain del 1984 venderà 9 milioni di copie), punta a provocare: una certa insolenza sessuale che deve molto alle vanterie da maschio alfa del blues («Ehi, amore, ho una canna da zucchero/ che voglio perdere dentro di te», Soft and wet) ma anche una vena trasgressiva e libertaria che è un dito nell’occhio per i comitati delle mamme che vogliono la scritta Parentual advisory – Explicit lyrics sulle copertine dei dischi considerati osceni.
Prince sfida spesso il bigottismo: «Sessualità liberate il vostro corpo/ Avanti tutti insieme, sì, questa è la vostra vita/ Non abbiamo bisogno di segregazione né di razze», Sexuality, e «La gente mi chiama insolente, vorrei che fossimo tutti nudi/ Vorrei che non ci fossero bianchi e neri/ Vorrei che non esistessero regole», Controversy).
Ma assai più di Jackson, Prince è un musicista a tutto tondo che compone arrangia suona e canta. Polistrumentista, riesce a registrare un disco da solo. Chitarrista, è uno dei grandi stilisti del rock. Autore, fonde funk e soul, blues e jazz, rock e psichedelia, ballad melodica e ritmo ossessivo con una sapienza che non tradisce la black music (Miles Davis, che era un suo ammiratore, suonerà in due brani di quel capolavoro che è Sign o’ the times) e la porta a riappropriarsi anche della sua anima rock.
Abbiamo detto di Sign o’ the times: scarna e intensa, con una ritmica nuda e potente, la canzone che dà il titolo al doppio album del 1987 dà un’occhiata alla terra desolata che è il presente, senza rifugiarsi nell’Isola Che Non C’è come fa il genio disimpegnato Michael Jackson: «In Francia un uomo magrissimo è morto per una brutta malattia dal nome corto/ La sua ragazza si è punta con un ago e ha fatto la stessa fine/ A casa ci sono ragazzi di diciassette anni/ E la loro idea di divertimento è far parte di una gang chiamata Discepoli/ Si fanno di crac e girano con il mitra. Tempo, tempo…”.
Non basta, non può bastare, in quella fine di decennio che vede il rap muovere i primi passi con i testi politicamente espliciti di Run-Dmc, Public Enemy e Beastie Boys (e con gli Nwa che inneggiano alle gang che Prince condanna). Prince continuerà a essere attivo sino alla fine, a lasciare cose egregie (pochi i passi falsi in una discografia che si avvicina ai quaranta titoli), sempre più bulimico di musica, sempre esplosivo nei concerti, ma la fama straordinaria degli anni ’80 cederà il passo allo status di classico.
Resta il fatto che tutta la musica successiva che ha provato a contaminare, a mischiare, a tagliare e cucire, a portare la sperimentazione nel cuore della forma-canzone gli deve, se non tutto, quasi tutto.