Ha conquistato il mondo nel giro di un decennio, si è esaurito per gigantismo, è rinato sotto forma di revival e feticismo musicale per ascoltatori nostalgici. Dai Procol Harum agli Yes, dai King Crimson ai Genesis, “Progressive rock” del giornalista e blogger David Weigel (Washington Post e Rolling Stone) ripercorre le tappe della saga che cambiò la faccia al rock
Ve la ricordate Lucy in the sky with diamonds dei Beatles, nell’album spartiacque Sgt. Pepper del 1967? «Immaginati in una barca sul fiume/ con alberi di mandarino e cieli di marmellata/ Qualcuno ti chiama, rispondi lentamente/ Una ragazza con occhi di caleidoscopio/ Fiori di cellofan gialli e verdi/ che svettano sopra di te/ Cerchi la ragazza con il sole negli occhi/ e se n’è andata/ Lucy nel cielo con diamanti…». Verso la fine dei “fab Sixties” i testi e i paesaggi sonori del rock cambiano: non più “voglio stringere la tua mano“ e chitarra basso batteria, non più tempi granitici in quattro quarti e canzoni di tre accordi tre. La musica, come una colata di lava, si dilata e si espande. E la ragazza con gli occhi di caleidoscopio annuncia nuovi mondi onirici: una terra di mezzo à la Tolkien dai colori grigi e rosa (In the land of grey and pink si intitola un album dei Caravan), fatta di elfi e streghe, giganti gentili e teiere volanti, isole d’acqua e spirali cosmiche, mostri e mutanti, fontane di Salmacis e Re Cremisi, navi fantasma e armadilli cingolati, paesaggi alla Bosch e lati oscuri della luna, mucche pezzate e pantere pronte al balzo, cammelli e gigantesse e macchine soffici, cacce alla volpe in riva al mare e ragazzine vittoriane che giocano a cricket con teste umane, per citare soltanto alcune delle sigle e delle copertine di allora.
Progressive viene battezzato a cavallo fra i ’60 e ’70, da una stampa musicale dapprima scettica e infine conquistata – ma tornerà ostile verso la fine del decennio, mentre si appicca il grande incendio punk – il dolce stil novo. Che nasce in Inghilterra, ha salde radici europee ed è una risposta all’egemonia americana, a un rock di dodici battute mutuato dal blues. Conquisterà il mondo, riempirà gli stadi, nel giro di una decade consumerà tutte le sue fortune in un’orgia di gigantismo e autofagia per risorgere – il fenomeno dura ancora – come revival e feticismo musicale per collezionisti e consumatori nostalgici.
Progressive rock di David Weigel, giornalista e blogger che scrive di politica per il Washington Post e di musica per Rolling Stone (Edt, traduzione di Marco Bertoli e foto di Roberto Masotti, con un’appendice italiana di Jacopo Tomatis, pagg, 386, euro 26) è un racconto minuzioso e partecipe, con appena una punta di disincanto, di quella saga che cambiò i connotati del rock. L’aneddotica è ricca: Keith Emerson che insegue Greg Lake con una bottiglia rotta, Robert Fripp che cambia le formazioni dei King Crimson ogni due per tre (oggi, a cinquant’anni dall’esordio, siamo a King Crimson VIII), Kevin Ayers e Daevid Allen che fanno la spola fra le Baleari, la Francia e l’Inghilterra, Robert Wyatt ubriaco a una festa che si butta da una finestra al quarto piano e ne esce invalido a vita, la legione di onesti comprimari che viene messa alla porta dai padri fondatori fra un disco e l’altro, fra un concerto e l’altro (il progressive, con la sua musica in perpetuo divenire, accentua la naturale rissosità del rock), i molti che cambiano rotta o sprofondano nella follia, le decine e centinaia di collaborazioni, gemmazioni e ibridazioni.
Ma il progressive che cos’è, come nasce? Abbiamo cominciato con i Beatles, converrà tornare a loro. Se il rock delle origini – quello di Elvis, degli anni ’50 e di buona parte dei ’60 – era stato musica per il corpo, buona per ballare e fare festa, e il rock di fine anni ’60 – quello dell’ondata psichedelica e della “summer of love” di San Francisco, della droga come espansione della coscienza – era stata musica per liberare il corpo attraverso la mente, il progressive sarà “musica per fare crescere la mente”, programmaticamente ambiziosa e non di rado virtuosistica, sia negli esiti più sperimentali (i King Crimson e molta “scuola di Canterbury”) sia nelle molte degenerazioni gladiatorie (Emerson Lake & Palmer, Yes).
I Beatles, appunto. Che dopo una prima fase spesa a fare da corifei del nuovo mondo adolescente chiudono con i concerti e cominciano un’intensa – e breve, si scioglieranno nel 1970 – maturità fatta di esperimenti da studio di registrazione. La loro, da Rubber soul al White album, è una musica sempre meno riproducibile sul palco, che porta nuovi strumenti (il sitar, gli archi di Eleanor Rigby, il crescendo orchestrale orgiastico di A day in the life, i loop di Revolution 9, i molti collage sonori) e innesti inconsueti: il vaudeville, il cabaret, le forme classiche, persino qualche tentativo di atonalità. È un’espansione dei confini del rock che altri (Who, Kinks) perseguono con i concept album e con le prime opere rock.
Intanto, a fare da battistrada al progressive provvede, fra il 1967 e il 1968, il “rock barocco” a volte di aspirazione scopertamente sinfonica (i Moody Blues di Days of future passed) che pesca nel grande repertorio della musica colta occidentale: i Procol Harum di A whiter shade of pale mutuato da Bach, i Nice di Keith Emerson che saccheggiano Bach, Sibelius e Bernstein (gli Emerson Lake & Palmer, in piena febbre prog, dedicheranno un album ai Quadri da un’esposizione di Musorgskij), gli americani Vanilla Fudge con un divertimento di Mozart e Per Elisa di Beethoven, i greci Aphrodite’s Child, persino gli italiani New Trolls con il loro Concerto Grosso (in seguito, gli Yes attingeranno a Brahms e Stravinskij, i Jethro Tull a Bach).
Il progressive come un grande pentolone, che incorpora classica e jazz (soprattutto i Soft Machine, i Matching Mole, gli Henry Cow, i Colosseum e in genere i canterburiani), minimalismo e ambient, improvvisazione e partiture intricate e stratificate. Pensate e scritte, forse per la prima volta in un rock che di solito si era affidato all’istintività. E organizzate spesso e volentieri in “suite”: un brano lungo a volte l’intero album – con la dilatazione della forma-canzone e dei tre minuti canonici a 15, 20, quando non 40, il progressive è decisivo nel consentire il passaggio dall’era dei 45 giri a quella dei 33 – e articolato in movimenti legati fra loro.
Eterogeneo l’immaginario musicale, altrettanto quello testuale: che attinge a letteratura, storia, mitologia (molte delle fortune successive del fantasy e delle saghe celtiche vengono da qui), fantascienza e persino supereroi dei fumetti, in un frullatore sincretistico del quale si ricorderà anche Hollywood (Guerre stellari ha, in questa musica e in certo space rock, penso agli Hawkwind, più di un germe anticipatore). Testi ambiziosi, spesso ermetici, che esaltano la figura del paroliere, membro a tutti gli effetti della band (Pete Sinfield, prima con i King Crimson e poi con gli ELP). E del creatore di copertine immaginifiche, penso a Roger Dean per gli Yes e per molti altri.
Ma la grande novità del progressive – sarebbe bello azzardare una storia della musica come storia della tecnologia – è il ridimensionamento della chitarra a favore delle tastiere. Non che i grandi chitarristi manchino: si pensi a Robert Fripp, a David Gilmour dei Pink Floyd, a Steve Howe degli Yes. Ma quella progressive è l’epoca delle magie del mellotron, del moog, dei sintetizzatori, del VCS3 che prendono il posto del vecchio e glorioso organo Hammond: e i grandi sciamani sono Keith Emerson e Rick Wakeman degli Yes che traffica fra quattro cinque tastiere. Anche le batterie si arricchiscono di campanelli e campanacci, gong, pedali e casse in eccesso.
Questa musica complessa e non di rado compiaciuta dura grosso modo sino alla fine dei ’70. Bruford la sintetizza così: «L’obiettivo sotteso al tutto, quello di mettere insieme musica rock, classica e folk in un surreale meta-stile, era un ideale intrinsecamente ottimistico. Nei casi migliori, il genere coinvolse gli ascoltatori in un viaggio di ricerca di autenticità spirituale. Certo, ci prendevamo troppo sul serio e una certa ingrugnata serietà della musica poteva risultare in un’ingenuità un po’ ottusa, ma il genere non cedette mai all’amarezza, al cinismo o all’autocommiserazione».
Finirà con il punk. Il momento del trapasso lo ha reso, in una pagina esilarante, Jonathan Coe nel suo La banda dei brocchi, raccontando le imprese della band Gandalf’s Pikestaff, che ha in cantiere l’album Apotheosis of the Necromancer. «I loro spartiti sono coperti di rune elfiche, caratteri gotici e illustrazioni alla Roger Dean di draghi e pettorute donzelle in diversi stadi di provocante nudità». Ma quando suonano dal vivo, di fronte a un pubblico che si aspetta il prog «fu il batterista a suonare la prima nota di ribellione. Dopo aver fatto tintinnare un po’ i piatti per quella che dovette sembrargli un’eternità, come parte di un passaggio strumentale prolungato che doveva suggerire l’idea di fantastilioni di galassie lontanissime che prendevano vita, annunciò improvvisamente: “Ma andatevene tutti quanti affanculo”, e cominciò a battere il tempo in quattro quarti. Riconoscendo l’imbeccata, il chitarrista pestò sul distorsore e si lanciò in uno sfrenato riff di tre accordi sul quale il cantante, un soggetto piuttosto aggressivo che si chiamava Stubbs, cominciò a improvvisare quella che soltanto con enorme indulgenza si potrebbe definire una melodia».