Proust a Grjazovec è una conferenza di Josef Czapski, nel gulag, sul capolavoro proustiano, ma è anche un libro su come la letteratura salva la vita
Stéphane Heuet, fumettista francese, nel 1988 ha un’idea un po’ peregrina: far diventare la Recherche di Proust un graphic novel. Cultori e custodi di quel mostro sacro che è Marcel Proust dalle pagine di «Le Figaro» hanno gridato alla “catostrofe” e alla “blasfemia”, ma l’intento di Heuet, in fondo, era molto nobile: democratizzare Proust e liberarlo dal ghetto degli snob che lo proteggono come un prezioso oggetto d’oro (come ha dichiarato in una intervista rilasciata al «New York Times»). Leggere Proust, per il fumettista, può cambiare l’uomo, lo mette in un rapporto privilegiato con le emozioni umane e lo costringe a confrontarsi con i propri sentimenti scoprendoli condivisi da altri. “Troppe persone muoiono senza avere potuto leggere Proust – continua in un’altra intervista su Radio France Internationale – ed io credo che questo a loro manchi, anche se non lo sanno”.
Probabilmente Józef Czapski quando, nel 1941, decide di tenere una conferenza nel gulag di Grjazovec ai suoi compagni detenuti proprio su Proust, pensava le stesse cose di Heuet. Lì non era possibile recuperare dei libri – e non si poteva neanche parlare liberamente – ma Czapski decide che forse, anche solo parlare di questa opera infinita e infinibile può essere d’aiuto a lui e agli altri prigionieri. E di sicuro Czapski vuole portare Proust incontro ai suoi compagni nel modo più immediato possibile, riesce a ricreare intere atmosfere, in alcuni passaggi sembra quasi di leggere davvero Proust. Per rendere questa opera francese più comprensibile al suo pubblico abbonda di confronti con la letteratura russa e polacca.
Oggi possiamo leggere questa conferenza “clandestina” (già edita nel 2005 da L’Ancora del Mediterraneo) in Proust a Grjazovec, edito da Adelphi, nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco. Le scelte traduttive mi sembra che vadano nella stessa direzione “democratizzante” di Heuet e di Czapski stesso del quale viene conservato il tono piano, colloquiale e antiaccademico, senza però restare troppo vicini alla lettera (spesso un francese incerto, a volte sbagliato) preferendo di rendere la lettura il più chiara possibile, come doveva essere stata pensata la conferenza stessa, d’altronde, per un uditorio verosimilmente digiuno di letteratura. La scelta di Girimonti Greco è, volendo estremizzare, non dissimile a quella di Boy-Zelenski, traduttore polacco di Proust, che dichiarava di aver voluto rendere più chiaro il dettato proustiano non contro Proust, ma nel suo interesse: “è sbagliato considerarlo uno scrittore per pochi, e occorreva pubblicarlo in un’edizione che favorisse la sua leggibilità” (pag. 49).
Ma perché proprio Proust? E in che modo ci rende migliori? In fondo la Recherche è piena di personaggi spegevoli: dai Guermantes che si preoccupano più delle scarpette della principessa che della malattia di Swann, allo stesso Swann che impazzisce di gelosia, fino ad arrivare alla figlia della Berma che tradisce la madre per poter apparire in una occasione mondana alla moda. Anche il narratore non si rivela un esempio da seguire indefessatamente. Per esempio, in Dalla parte di Swann, possiamo leggere un passaggio come questo:
“La amavo, rimpiangevo di non aver avuto il tempo e l’ispirazione di offenderla, di farle male, e di costringerla a ricordarsi di me. La trovavo così bella che avrei voluto poter tornare sui miei passi a gridarle, alzando le spalle: ‘come vi trovo brutta, grottesca, come mi ripugnate!’.”
In una delle primissime recensioni a Dalla parte di Swann (uscito per l’editore Grasset nel 1913) il critico Henri Ghéon su la «Nouvelle Revue Française» definisce il romanzo un’opera di loisir: un libro scritto da qualcuno che non aveva assolutamente nulla di meglio da fare, un’opera sul tempo perso, sui dettagli minimi e insignificanti dell’esistenza e per chi ha tempo da perdere. Certo l’equivoco è evidente, ma da queste premesse è ancora difficile capire come la lettura di Proust possa davvero aiutare l’uomo.
Ad un occhio più attento, però, la Recheche si presente come una enorme costruzione architettonica, un po’ come una cattedrale gotica. Fuori ci troviamo di fronte a questi spaventosi gargoyle che rappresentano le situazioni fra il terribile e il grottesco che popolano l’opera: dalle scene di Sodoma e Gomorra alla degradazione fisica e morale dei suoi personaggi. Questo senso di angoscia accresce in noi: man mano che entriamo iniziamo a vedere raffigurazioni di martiri, fino alla volto della crocifissione: è il tragico, uno degli elementi sostanziali dell’opera: l’amore non dura, l’amicizia è un’illusione, l’arte è soltanto una frazione della nostra memoria interiore, mentre il tempo maiuscolo è un dio spietato e beffardo che cancella le nostri ambizioni e le stesse passioni. Ma superato il trauma pian piano ci si inizia ad abituare all’odore di incenso, si ci si accorge dei riflessi sul marmo della luce che entra dalle vetrate, si inizia ad ascoltare la musica (e di musica, come di pittura, è davvero piena la Recherche), ci si guarda intorno e ci si trova davvero un microcosmo. E ci si accorge che, in realtà, in Proust c’è davvero l’umanità intera, con tutto il suo carico culturale, artistico e sentimentale. Le sue analisi delle emozioni raggiungono una straordinaria finezza psicologica, quasi psichiatrica e senza aver letto Freud. È un’opera il cui vero argomento è il Tempo, è la storia di una vocazione artistica, ma non credo di sbagliare quando dico che si potrebbe dire, alla fine, che è un’opera sull’Uomo.
Ed è per questo, forse, che Czapski sceglie proprio Proust per parlare ai suoi compagni prigionieri. In un momento in cui lui e i suoi compagni camminano verso l’annichilimento – fisico e morale – leggere (ricordare) Proust è atto rivoluzionario contro la bestializzazione dell’essere umano, per riscoprire la propria interiorità, da prigionieri, attraverso quei personaggi della Recherche che Carlo Bo ha definito non “dei tipi, ma dei mondi suscettibili di infinite aggiunte, correzioni e riduzioni”.
Sceglie un’opera alla cui fine il protagonista conquista l’indifferenza per la morte: quella parola, così pericolosa, non ha per lui più alcun senso.
La cosa più interessante di questo libro, oltre alla finezza delle analisi, agli arditi paragoni (è chiamato in causa addirittura Pascal, da un Czapski, ricordiamolo, credente), mi sembra essere la testimonianza di fondo dell’esperienza. Più che di Proust questo libro parla del gulag, della resistenza, del gelo, di come Proust salvi davvero la vita, in un campo di prigionia, in una situazione estrema, dalla quale solo in pochi usciranno vivi. E più che Proust, di come la letteratura salvi la vita.
Immagine di copertina by Warburg