Quaderno di quattro anni si aggiunge alla serie di raccolte commentate di Montale, strumento fondamentale per capire uno dei più grandi poeti del Novecento
Aprire un libro di poesie non è sempre una cosa semplicissima da fare. Dal punto di vista fisico richiede ben poco: una minima mobilità articolare, una vista non troppo guastata, e poco più. Lo sforzo intellettuale è, invece, molto più faticoso da sostenere. Per questo motivo quando qualcuno ci viene incontro, ci lancia un salvagente a cui aggrapparsi è sempre una cosa gradita. Fuor di metafora, il salvagente è un’edizione commentata. Quello che le opere di letteratura parlino da sole è un luogo comune abbastanza banale, la critica in questo senso ha ancora un ruolo.
Assolutamente encomiabile, allora, è il lavoro che un gruppo di studiosi sta svolgendo sui libri di poesia di Montale. Dopo Gli ossi di seppia, Le occasioni, Satura e Il Diario del ’71 e del ’72, è da poco uscita per gli Oscar Mondadori l’edizione commentata del Quaderno di quattro anni a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani.
Il Quaderno è il quinto libro di Montale, pubblicato nel 1977. Per molti versi prosegue la ricerca poetica del Montale prosastico di Satura e del Diario, senza per questo mancare di una sua specificità. Nei commenti a questi libri, infatti, non si manca di sottolineare i caratteri distintivi che le ultime opere di Montale assumono singolarmente, per uscire da quel luogo critico che le amalgamava sotto la comune rubrica di “ultimo Montale”.
Temi e modalità espressive, certamente, ritornano: ci troviamo, quindi, di fronte ad un nichilismo – forse esasperato rispetto alle raccolte precedenti – e si accompagna ad una disincantata ironia che sfocia spesso nel gioco parodico e auto-parodico; vediamo ancora l’auto-citazionismo e il costante richiamo ad altri autori(soprattutto Italo Svevo, Thomas Hardy, Samuel Beckett e Paul Valèry, come nota Bertoni nell’Introduzione), la riflessione sul linguaggio (che si fa molto più fitta in questo libro, assumendo anche prospettive nuove) e sulla memoria – nella quale non si ripone fiducia; la crisi dei fondamenti storici e culturali va di pari passo insieme all’impossibilità di individuare una qualsiasi verità; tornano i personaggi ormai tipici: dalla domestica Gina, ai piccoli animaletti, insetti e uccelli, ai tre fantasmi femminili (Mosca, Clizia e Arletta, quest’ultima è in questo libro che attesta la sua presenza più massiccia) che spesso arrivano persino a confondersi. Ma il Quaderno, rispetto alle due opere precedenti della vecchiaia, mi sembra, si differenzi per la totale disorganizzazione nella distribuzione dei testi, per un lieve innalzamento di tono (aumentano i riferimenti mitologici e biblici: costante è quello all’Apocalisse), ma credo trovi la sua cifra distintiva nell’esasperazione dell’artificio dello svuotamento di senso: cioè la negazione, la continua messa in dubbio di quello che viene detto, contemporaneamente al momento in cui lo si dice; affermare, insieme, una cosa e il suo contrario.
Questo aspetto va di pari passo con l’uso spasmodico che Montale fa dell’ossimoro in tutta la sua produzione della vecchiaia. Questo artificio retorico, quasi una costante di una gran parte della poesia italiana del periodo, è usato per rendere lo stato paradossale dell’uomo contemporaneo che, assediato dalla merce e dall’informazione, ha perso ogni punto di riferimento e di discernimento. La società massmediatica – altro tema cardine dell’ultimo Montale – ha ottuso l’uomo che nell’omogeneizzato contemporaneo non è più in grado di orientarsi, di distinguere il pieno dal vuoto, il vero dal falso e così via. La rappresentazione di questa società nel Quaderno si inasprisce, ai termini della cucina e della merda (tipici di Satura e del Diario) qui si accompagna una rappresentazione apocalittica e infernale (soprattutto in termini danteschi):
Non serve un uragano di cavallette
a rendere insolcabile la faccia del mondo.
È vero ch’esse s’immillano, si immiliardano
e formano una scorza più compatta di un muro.
Ma il troppo pieno simula il troppo vuoto
ed è quello che basta a farci ammettere
questo scambio di barbe. Non fa male a nessuno.
È chiaro che la situazione apocalittica (si noti il riferimento all’invasione di cavallette) non è solamente contingente, ma piuttosto esistenziale: anche se la fine del mondo sarebbe un evento sensazionale, in realtà non ci troveremmo di fronte ad altro che una mera ripetizione del presente stato di cose. Montale manifesta qui tutto il suo scetticismo che si riflette nella constatazione che, citando Guccini, «dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso». E per Montale neanche la scienza può colmare questo vuoto:
Mi pare strano che l’universo
sia nato da un’esplosione,
mi pare strano che si tratti invece
del formicolio di una stagnazione.
Ancora più incredibile che sia uscito
dalla bacchetta magica di un dio che abbia caratteri
spaventosamente antropomorfici
Ma come si può pensare che tale macchinazione
sia posta a carico di chi sarà vivente,
ladro e assassino fin che si vuole ma
sempre innocente?
Come è evidente da questo testo, Big bang o altro, la sfiducia più totale è nei confronti dell’uomo, assunto come termine negativo di paragone («caratteri spaventosamente antropomorfici», corsivo mio) e qualificato come «ladro» e «assassino». Montale ribadisce anche in questo libro che la prospettiva di un nuovo umanismo è assolutamente spaventosa: «Può darsi che l’uomo sia un particolare come una pulce. Conosce le tesi di Monod? L’uomo è nato sulla terra per caso, siamo i beneficiati di questo caso. […]Non ho certezze in proposito. […] Però di una cosa sono sicuro: non dobbiamo inorgoglire per il fatto di essere uomini» (dall’intervista a Nascimbeni, in Secondo mestiere). E si legge, infatti, in Un tempo…: «La scomparsa dell’uomo non farà una grinza / nel totale», neanche il linguaggio può portargli salvezza, «questo dio dimidiato / che non porta salvezza perché non sa nulla di noi e ovviamente / nulla di sé».
Il poeta resta, allora, uno che «canta a terra, e non sugli alberi» (Il sabìa), la cui unica famiglia sono il merlo e i «piccioni che beccano / sul davanzale» (La solitudine).
Questo vecchio poeta, alla finestra, sempre più scettico, senza molte speranze, che si prende amaramente gioco di se stesso e degli altri, per alcuni versi reazionario – come lo ha definito Pasolini – può piacere o meno, un merito però gli va sicuramente riconosciuto: è stato il primo ad esprimere la vera grande scoperta del secolo: «che la nostra vita è quantistica, intermittente, discontinua, fra l’essere e il non-essere. È stato Montale a dirci che la realtà non sta nella linea diritta, ma nel zig-zag, non sta nella nostra esistenza ma nel suo intervallo» (Cesare Garboli). E il linguaggio con cui Montale esprime questa scoperta, pur nella sua prevalente prosasticità, non è di certo facile. Per questo sono fondamentali i cappelli introduttivi, che precedono ogni poesia, e le note a cura di Guido Mattia Gallerani che rendono accessibile la lettura di un classico della poesia del nostro Novecento anche ad un lettore non specializzato. Per ogni poesia, inoltre, vengono riportate le caratteristiche metriche, redatte di Alberto Bertoni che ha scritto anche l’introduzione al volume fornendo le linee guida interpretative. Molto utile questo saggio introduttivo che tende a sottolineare, in particolar modo, la specificità del Quaderno e la fitta trama intertestuale che lo percorre; rispetto ai profili introduttivi degli altri volumi della collana (più divulgativi e schematici) quello di Bertoni è più esteso e sistematico – cosa che da un lato gli conferisce maggiore rigore argomentativo, ma dall’altro perde nell’incisività ed immediatezza.
L’edizione è completata da un articolo di Cesare Garboli e da un saggio di Giorgio Orelli (questo di taglio scientifico), forniti come supporto interpretativo, insieme ad una ricchissima bibliografia.
Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni (Mondadori, XC+383 pp., 18€)
Immagine: Eugenio Montale di Valentina Sorti