È settembre, ricominciano le scuole e le piogge, riaprono i teatri, riparte anche la stagione delle esposizioni. Ecco un vademecum per orientarsi in quest’autunno di mostre, a Milano e non solo.
Si può partire dalla Fondazione Prada dove è agli sgoccioli la mostra curata da Francesco Vezzoli sugli anni Settanta visti attraverso il filtro di miti e mitologie televisive. Per chi avesse ancora voglia di immergersi in atmosfere seventies, sono in programma, fino al 23 settembre, le Maratone tv ‘70: si spazia, dall’alto al basso, dalla Carrà ad Antonioni (alle prese con un documentario sulla Cina) a Kabir Bedi in versione Mompracem (a voi stabilire dove sta l’high, e dove il low).
Da metà ottobre però si cambia radicalmente atmosfera e passo: dopo le monografiche su William Copley e Edward Kienholz, Germano Celant continua la sua esplorazione delle facce meno note del Novecento americano. Basta allontanarsi dalla New York di Warhol e Rothko, sembra suggerire il curatore, e c’è un intero continente da (ri)scoprire. Questa volta l’attenzione si concentra sulla scena artistica di Chicago nella seconda metà del secolo scorso, con ben tre mostre, contemporanee e complementari, in partenza il 20 di ottobre: Famous artists from Chicago. 1965-1975 e due personali, rispettivamente per lo scultore Horace Cliff Westermann, tra disegni, legno e materiali di riuso, e il pittore Leon Golub, che promette impegno politico e tele disturbanti.
Che si tratti di grandi artisti è tutto da dimostrare: la questione non è, insomma, buttare a mare gerarchie consolidate e gridare al nuovo Pollock. Ma certo colpisce in positivo il coraggio della Fondazione di Largo Isarco, che porta avanti una programmazione intelligente e intelligentemente impegnata a ripensare canoni e mettere in discussione liste troppo selettive di artisti dell’obbligo, dosando sperimentazione e divulgazione. Non può che far piacere.
Dispiace, invece, che a farsi carico di una funzione civile di accrescimento delle conoscenze diffuse debba essere una fondazione privata, in una città in cui le istituzioni pubbliche troppo spesso (leggi alla voce Mudec) si accontentano di rivangare allo sfinimento i soliti nomi noti, che garantiscono biglietti a scatola chiusa: leggi alla voce Klimt experience. L’accanimento su Klimt ha ormai qualcosa di paradossale: l’ultima monografica, a Palazzo Reale, è del 2014, appena tre anni fa. Se non altro, per questa volta non c’è rischio che si danneggino opere visto che alla Klimt experience, di Klimt, non ce n’è neppure uno.
Ben venga dunque l’audacia della Fondazione Prada che prosegue inarrestabile per la sua strada, come inarrestabilmente cresce, e svetta già sulla skyline dello scalo di Porta Romana, il nuovo grattacielo di casa Prada-Bertelli, affidato ancora una volta allo studio OMA di Rem Koolhaas. A proposito dell’architetto olandese, ma ormai quasi meneghino d’adozione, suscita curiosità e attese l’annunciata esposizione della Fondazione Carriero, dedicata a Sol LeWitt e affidata proprio alla cura di Koolhaas insieme a Francesco Stocchi. Sol LeWitt . Between the lines inaugura il 17 novembre e se ne sa ancora molto poco, ma le mostre viste fin qui nella centralissima sede della Fondazione (su Fontana, su Pascali) erano belle assai, e tutto lascia ben sperare.
Il pezzo forte della stagione, in ogni caso, per aspettative, visitatori e polemiche che verranno, è la mostra su Caravaggio in Palazzo Reale: Dentro Caravaggio, al debutto il 29 settembre. Già solo a scriverlo così, “mostra di Caravaggio in Palazzo Reale”, c’è di che far tremare i polsi. Proprio in Palazzo Reale infatti andò in scena – era il 1951 – la mostra sull’artista curata da Roberto Longhi, a coronazione di quarant’anni di studio, una delle esposizioni cardine del Novecento: in un’Italia ancora ferita dalla guerra, fece – pare – un milione di visitatori: numeri inauditi, allora e oggi (e nelle sale di Palazzo Reale, in quei mesi, si svolse anche, come in un romanzo di Arbasino, l’incontro decisivo tra Longhi e Giovanni Testori). Caravaggio, resuscitato quasi dalla comprensione di Longhi, si presentava come l’inventore della pittura moderna al pubblico e si preparava a diventarne il beniamino. Da allora di mostre sull’artista ce ne sono state molte, e anche troppe negli ultimi anni. Qualsiasi confronto sarebbe insensato, ancor prima che ingeneroso: è cambiato il mondo delle esposizioni artistiche (oltre che il mondo in generale) e oggi una mostra come quella, in cui si presentava la quasi totalità della produzione dell’artista, smontando anche le tele gigantesche dalle cappelle romane, non sarebbe realizzabile da nessuno.
Chi però temeva una mostra che di Caravaggio avesse poco più che il nome (se ne sono viste anche di recente, anche a Milano), può stare tranquillo: le opere dell’artista saranno numerose, i prestiti annunciati sono prestigiosi, anche da oltreoceano, anche con opere che non è facile vedere abitualmente. È il caso del San Giovanni che campeggia già sui manifesti sparsi in città: quanti potrebbero andare fino a Kansas City per vederlo? O a Hartford, Connecticut, per il San Francesco in estasi? Ci sarà modo poi di mettere alla prova dipinti della cui autografia gli esperti hanno molto discusso negli ultimi decenni, come il San Francesco di Cremona, di recente restaurato, e il Ragazzo morso da un ramarro della Fondazione Longhi; peccato però non poterlo vedere accanto all’altra versione, che sta a Londra: sarebbe stato risolutivo.
Insomma la carne al fuoco è molta, l’elenco delle opere è da capogiro, la curatrice, Rossella Vodret, è una studiosa caravaggesca autorevole e di comprovata esperienza. Certo, spaventa un po’ leggere, nei materiali di lancio dell’esposizione, che la principale chiave di lettura per affrontare un artista tanto capitale nella cultura occidentale sarà quella delle indagini diagnostiche, delle radiografie, delle analisi chimiche su pigmenti e leganti: «la nuova frontiera della ricerca per la storia dell’arte». Come se i risultati messi a disposizione dalle nuove tecnologie fossero, di per sé, l’obiettivo, e non strumenti, tra i tanti, nelle mani dello storico dell’arte: dati da interpretare, incrociandoli e calandoli in un contesto, per arrivare a una migliore comprensione del passato. Come sarà, allora, questa mostra di Caravaggio in Palazzo Reale? Chi vivrà vedrà, l’occasione resta da non perdere.
In Triennale invece, archiviata la Terra inquieta di Massimiliano Gioni, di cui tanto si è discusso, anche per la tragica attualità del tema, inaugura il 26 settembre una retrospettiva dedicata a Ettore Sottsass, a cent’anni dalla nascita: un dovuto omaggio all’architetto-designer-fotografo e una mostra che si annuncia interessante e piacevole. Il pezzo forte però rischia di essere, dal 19 settembre, The Ballad of Sexual Dependency della fotografa americana Nan Goldin: lei è del 1953, il titolo è quello di una canzone di Kurt Weill dall’Opera da tre soldi. L’opera, che dopo aver girato il mondo per trent’anni approda finalmente in Italia, è un’autobiografia per immagini ad alto tasso emotivo, una video-installazione di circa 700 istantanee a raccontare una giovinezza, tra la New York dei Velvet Underground e la Berlino anni Ottanta, tra eroina e AIDS.
Per chi si sentisse in vena di weekend artistici, infine, sul fronte dell’arte del passato stanno per inaugurare o hanno da poco aperto i battenti diverse esposizioni che potrebbero meritare la fatica di una trasferta. Un po’ a rotta di collo: Marcello Fogolino al Castello del Buonconsiglio di Trento (fino al 5 novembre), Luigi Miradori detto il Genovesino a Cremona (dal 6 ottobre), Ambrogio Lorenzetti a Siena (dal 22 ottobre), il Cinquecento a Firenze in Palazzo Strozzi (dal 21 settembre). Artisti maggiori e minori, da scoprire e riscoprire: a questo servono le mostre.