La Pietà Rondanini è stata riallestita nell’Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco da Michele De Lucchi. Molte le polemiche – qualche riflessione a freddo
Michelangelo sarebbe dovuto venire a Milano nel 1561: Pio IV avrebbe voluto che progettasse la tomba per suo fratello, Giangiacomo Medici di Marignano, detto il Medeghino. Si dovette “accontentare” di Leone Leoni, che progettò il magnifico monumento in bronzo e marmi che ancora incanta nel braccio meridionale del transetto del Duomo.
Nel 1952, però, un Michelangelo vero viene messo in vendita: si tratta della Pietà detta Rondanini a causa della famiglia che la possedette (anche se il vero nome era Rondinini). L’ultima opera di Michelangelo è contesa da tutti i grandi musei internazionali, ma – per grazia salvifica dei vincoli delle Belle Arti – non può lasciare l’Italia. Così la città la può comprare a 135 milioni di lire. Dopo molti accesi dibattiti, finisce nelle collezioni del Castello.
– Prima riflessione: c’è stato un tempo in cui sul mercato c’erano opere come la Pietà Rondanini. A volte ricapita, sempre più raramente. Altre volte si dovrebbe valorizzare – anche dal punto di vista monetario – il meno noto. Di certo, la cosa che davvero non si dovrebbe fare è attaccare, in mostre, spesso pubbliche – pagate con soldi pubblici –, cartellini a dir poco ambiziosi ad opere a dir poco sciape al fine di gonfiare il valore di opere in mani private. Fino a pochi giorni fa nelle teche di Palazzo Reale frinivano cavalli bronzei attribuiti del tutto inopinatamente a Leonardo da Vinci. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito, non solo in Italia…
– Seconda riflessione: le Soprintendenze tanto vituperate ci aiutano anche a preservare un patrimonio di storia che, altrimenti, sarebbe colonizzabile da chi ha il denaro come l’India dell’Ottocento. Ci sono valori che non sono soggetti alle pressioni del denaro.
L’opera viene quindi inserita nel piano di riallestimento del Castello allora in mano ai BBPR, lo storico studio di architetti (Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peressutti, Rogers) che realizza un allestimento museale straordinariamente innovativo. Il prezzo è alto: il Castello viene a più riprese violentato al fine di realizzare i nuovi allestimenti. Il risultato complessivo, però, è ancora studiato come uno dei più alti risultati dell’architettura museografica del ‘900: le opere non vengono disposte secondo criteri ottocenteschi e positivistici, non in sequele collezionistiche da Wunderkammer né secondo i canoni delle gerarchie storiografiche. Ogni opera ha un suo spazio e viene trovato un modo di valorizzarla nel rapporto con le altre e con lo spettatore. La Pietà viene disposta entro una nicchia di blocchi di pietra serena che la isola e innalza, a conclusione del percorso espositivo, nella Sala degli Scarlioni del Castello.
– Terza riflessione: l’allestimento di un museo è un’opera complessa. Forse un’opera d’arte in se stessa. Non solo deve essere aesthetically pleasing, come direbbero gli inglesi, ma deve rispettare la storia. E, nonostante questo, deve essere consapevole di darne un’interpretazione, guidando, così, secondo quell’interpretazione ogni visitatore più o meno accorto che camminerà tra le sale del museo. Un allestimento, per quanto storico, per quanto straordinariamente riuscito, è un’opera che porta in sé una data di scadenza. Esso esprime, infatti, i valori, le gerarchie e i gusti – sempre temporanei – della società che l’ha prodotto. Pensare che gli allestimenti museografici non debbano cambiare mai significa pensare che la storia sia una e criocongelabile, negandone, di fatto, l’importanza per il presente. Essendo un rapporto, quello del passato con il presente, esso si modifica anche quando a modificarsi è solo uno dei due termini, cioè il presente. Negare questo significa non solo essere miopi, ma negare l’utilità della storia per la vita. Essendo un allestimento (e già in sè la parola dà l’idea di precarietà intrinseca all’operazione) soprattutto la rappresentazione di un modo di intendere un passato musealizzato, esso nasce per essere – prima o poi – distrutto.
– Quarta riflessione: se anche qualcuno pensasse che dagli anni ’50 il nostro modo di intendere la storia non è cambiato (e sarebbe preoccupante), dovrebbe riconoscere che l’allestimento dei BBPR, di fatto, non esisteva già più. La Sala degli Scarlioni, dove, fino a poco tempo fa, stava la Pietà, era andata affollandosi di pezzi di opere del Bambaia e aveva perso il senso e la pulizia che avevano voluto conferirle i BBPR. La scala di accesso non era percorribile dai disabili ed era stata modificata rispetto all’originale. Inoltre, in sè, l’allestimento della Pietà aveva disturbato tanti, sotto diversi rispetti: senza usare le parole della Wittgens (mitologica direttrice di Brera), che l’aveva definito un “vespasiano”, anche grandi scultori, attenti più di altri all’importanza delle forme e dei materiali, come Arnaldo Pomodoro e Henry Moore, avevano criticato l’allestimento, che non consentiva di girare attorno alla statua, e che, con quei blocchi di pietra serena così geometrici sul retro, creava un cortocircuito di stili che poteva essere tanto illuminante quanto distorsivo.
– Quinta riflessione: gli allestimenti museali sono progetti complessi. Ciò che fa più male a vedere un allestimento come quello di Ermanno Olmi a Brera per il Cristo morto di Mantegna è che l’idea sottesa è quella che le opere si possano trattare una a una, isolare come una proiezione televisiva, invece che fare ciò che si dovrebbe fare in un museo, e cioè disegnarne la trama complessa di rapporti con le altre opere e con il presente del visitatore che le guarda.
Ora, a cinquant’anni da quell’allestimento, Michele De Lucchi, grazie alla spinta propulsiva di Stefano Boeri (e all’avallo, poi, di Filippo Del Corno), con l’appoggio della Soprintendenza e della direzione del Castello, il continuo sostegno di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, che insegnano storia dell’arte all’Università, e molti soldi di Cariplo, ha ripensato la collocazione della Pietà nell’Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco.
– Sesta riflessione: non si vedono all’orizzonte colpi di mano di burocrati impreparati, ma una discussione tra tutti i diversi operatori cittadini del settore, tesa a trovare una soluzione che metta insieme pubblico e privato secondo un modello virtuoso. Uno spirito civico che ricorda quello che presiedette all’acquisto della statua nel ’52.
Ma com’è questo nuovo allestimento? La Pietà è stata spostata nell’Ospedale Spagnolo, un luogo dove migliaia di soldati feriti hanno provato dolore e sono molto spesso spirati. Vi si entra in modo tale che la scultura venga vista di spalle, cosicché, lungo la curva della schiena di Maria, il dolore si palpi ancora più forte. Non ci sono cordoni, non ostacoli visivi tra lo spettatore e la Pietà. Solo una linea che, sul pavimento di rovere, delimita l’area del piedistallo antisismico che la statua si è guadagnato. Certo, ha perso quello che in molti dicono “il suo” basamento, che è in realtà romano, e su cui la statua, in realtà, poggiava solo dal 1911. Era un accostamento forse felice, ma improprio. Come impropria e ambigua era la posizione della scultura michelangiolesca tra le sculture lombarde, con cui non c’era quasi nessun nesso: l’italianità dei genii come Michelangelo, Raffaello e Leonardo non resiste mai alla prova dei confronti d’immagine, ma esiste solo nella retorica di regime e nelle sue filiazioni odierne più becere.
– Settima riflessione: Lo spettatore può girare attorno alla statua, apprezzarne la tridimensionalità che le è propria, piuttosto che la restituzione pseudo-pittorica che prima si stagliava contro la nicchia BBPR. Significa anche intendere diversamente il ruolo del visitatore, che si fa così più attivo, nota ciò che vuole notare e viene condotto un po’ meno verso ciò che si vuole che lui veda. Tutto diventa suggerito, niente rimane imposto. Il museo, insomma, da luogo di trasmissione di un’idea di evoluzione culturale, diventa un luogo in cui formarsi una coscienza storica ed estetica a partire dal bagaglio della tradizione storico-critica precedente, che – con discrezione – suggerisce una lettura.
Rimangono le due sculture delle sculture milanesi che hanno un legame più stretto con Michelangelo: il ritratto bronzeo di Daniele da Volterra e la medaglia che Leone Leoni fece per ringraziare il maestro della commissione ottenutagli per il monumento al Medeghino. Tutto attorno corrono i capitoli del credo sui cartigli degli affreschi della sala, il che dà un senso di religiosità diffusa, magari un po’ consumata dallo scorrere degli anni e della storia.
Il pavimento, in rovere chiaro, contrasta con il bianco marmo della scultura. Il contrasto è costruttivo, perchè – anche grazie all’ottima illuminazione Artemide – le forme della scultura risaltano. A chi rimane la curiosità per questa scelta ardita di un pavimento in legno, è stato spiegato che era, peraltro, quello che, secondo i documenti, rivestiva il pavimento dell’Ospedale quando era in funzione. Storia, estetica e significati umani si reintersecano nuovamente in questo allestimento, fin nel dettaglio della scelta della pavimentazione.
– Nona riflessione: potrebbe dare fastidio, e sembrare una ricaduta nel culto del genio, l’aver isolato ulteriormente Michelangelo, e aver forse ridotto il Castello al bivio tra la Pietà di Michelangelo e la Sala delle Asse di Leonardo. Però basta pensare al luogo, al dolore che traspare nella freddezza minimale dell’allestimento, alla semplicità e grazia che uccide ogni pomposità, per capire che questa era un’operazione sensata, e lontana da ogni retorica romantica. Proprio per questo dispiace che, anche se per pochi mesi prima dell’inaugurazione del nuovo spazio nell’Ospedale, non si sia riusciti a portare la statua al centro di San Vittore, come da progetto originario. Sarebbe stato un bel segno, sarebbe stato indovinarne, una volta in più, il senso.
Superati gli orridi Expo Gates davanti al Castello, passati attraverso la Torre immaginata da Filarete, si arriva in un luogo in cui è dato spazio alla riflessione su di sè e sulla propria posizione nel mondo. Difficile pensare a qualcosa di meglio che si possa ottenere attraverso l’arte.
Immagine di copertina di Paolo Serena