Il testo teatrale di Dale Wasserman viene proposto qui nell’adattamento di Maurizio de Giovanni, che trasferisce l’azione nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, nel 1982
Il potere che tutto vede – oggi come mai, dato ci incarichiamo noi stessi di mostrarglielo – gioca con gli uomini a uno strano gioco: più diventiamo sottomessi più ci dice che siamo liberi, più diventiamo pazzi più ci dice che finalmente siamo “normali”.
Non potendo, o non essendo più conveniente, dominare attraverso la forza e il dispotismo esplicito, il potere ha inventato un modo per sopravvivere non contro ma attraverso il volere popolare: la disciplina, altrimenti detta “democrazia”. Si accettano delle regole e chi le infrange viene punito. Anzi, spesso le regole esistono appunto perché qualcuno le infranga, in modo da poterlo punire. Ma tutto – si capisce – è fatto per il bene comune. Se, poniamo, in un ospedale psichiatrico c’è un paziente che non vuole prendere una medicina, non lo si forzerà, gli si dirà solo che è per il suo bene ma che lui non è obbligato a nulla. Il resto lo farà da solo.
Qualcuno volò sul nido del cuculo, un testo teatrale di Dale Wasserman tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey e portato sullo schermo da Miloš Forman, viene proposto qui nell’adattamento di Maurizio de Giovanni, che trasferisce l’azione nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, nel 1982.
Angelo guardiano di questo luogo è Suor Lucia, e la sua terapia di recupero dei pazienti si riassume in una parola che a tutti noi, di questi tempi, dovrebbe suonare oscuramente familiare: condivisione. Periodicamente ci si riunisce e ognuno dei ricoverati condivide, appunto, le sue preoccupazioni e fragilità più intime. Inoltre ciascuno è invitato a riferire all’autorità qualunque azione degli altri che vada contro il regolamento. In questo modo, si dice, ci si prepara a rientrare nel mondo esterno. Ma inducendo a confessare – questo il termine corretto – ogni più riposta informazione personale, ciò che si ottiene non è altro che un rinnovato controllo sulla mente degli uomini.
In questo sistema consolidato entra però un granello di polvere, Dario Danise, un delinquentello che si finge pazzo per uscire dal carcere. Questo nuovo venuto – abbastanza folle o sano da comprendere il sistema – comincerà presto a mettere in discussione il regolamento, a irriderlo, a sfidare e porre in ridicolo l’autorità di Suor Lucia, finendo per scontrarsi in modo serio con la sorridente burocrazia del potere.
E quando il potere – l’unico vero pazzo – è costretto a smettere di sorridere e ad alzare la voce vuol dire che qualcosa lo sta minando per davvero, e non ci sarà corda – dalla vergogna alla paura al senso di colpa – che non pizzicherà per aver ragione di chi pensa di poter fare a meno di lui.
“Democrazia e pazzia sono la stessa cosa” dice Dario. E la messa in scena di Alessandro Gassmann, con Daniele Russo, Elisabetta Valgoi, Mauro Marino, Marco Cavicchioli, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Giulio Federico Janni, Daniele Marino, Antimo Casertano, Gilberto Gliozzi, Gabriele Granito e Giulia Merelli, sembra urlare questo: si può scegliere di essere pazzi (o sudditi di una falsa democrazia) e delegare tutta la propria esistenza ad altri perché si è convinti che “il mondo è dei forti”, perché non si vuole affrontare la responsabilità di essere sani di mente e si ha paura che se si infrangono le regole si verrà puniti. Viene da domandarsi quale sia mai, fuor di metafora, l’elettroshock o la lobotomia della nostra società. Il rifiuto? L’esclusione? La solitudine? Quale misura repressiva ci fa tanta paura da farci decidere di condividere tutto e subito, piuttosto che doverla subire? Eppure ci dev’essere per forza, in questo mondo, qualcosa che non ci sta bene, se abbiamo bisogno di ripetere ossessivamente “mi piace”.
Questi interrogativi sorgono prepotenti nello spettatore, e tanto basta per dire che quest’allestimento ha fatto un ottimo uso del testo. La regia, chiara e per nulla invadente, dà modo agli interpreti di farci provare una ribellione reale contro quello che riconosciamo essere il manicomio in cui rientreremo, una volta fuori da teatro.
E quando Dario Danise chiede ai suoi compagni perché scelgano di stare dentro, la domanda è rivolta al pubblico, a tutti. Perché forse è vero che “essere chiusi dentro o fuori è la stessa cosa”.
Fotografia di Francesco Squeglia