“Quando eravamo fratelli”, secondo e intenso film di Jeremiah Zagar, viene dal Sundance Festival dove è stato premiato. Ne sono protagonisti i giovanissimi figli di portoricano affettuoso, manesco e incline all’alcol e di una bella italo-americana, innamorata del marito e dei tre figli, cui non riesce ad assicurare un po’ di tranquillità economica e affettiva. Dignitosa povertà, frequenti drammi, rari sprazzi di felicità domestica. Nel nord dello stato di New York, dove il sogno americano davvero non s’è mai visto
Manny, Joel e Jonah, protagonisti di Quando eravamo fratelli – secondo e intenso film dell’americano Jeremiah Zagar dopo il documentario Il caso Pamela Smart con Nicole Kidman, Joaquin Phoenix e Helen Hunt – sono tre ragazzini abituati a cavarsela da soli. Il padre portoricano fatica a tenersi un lavoro e anche a tenersi lontano dalla bottiglia. Quando è sobrio, è un genitore sorridente, un marito innamorato, da ubriaco invece sa solo pestare e imprecare contro il destino avverso. E ogni tanto sparisce nel nulla, anche per periodi piuttosto lunghi. Torna sempre, ma quando e come non è dato saperlo. La madre è una giovanissima italo-americana di Brooklyn, bella, fragile, innamorata del suo uomo e dei figli, ma in gran parte incapace di tener a bada le spinte distruttive del primo e di assicurare ai secondi un po’ di stabilità economica e affettiva.
Siamo in uno dei tanti posti dell’immenso continente americano dove l’american dream nemmeno si è mai affacciato (su a nord, nello stato di New York, dalle parti di Syracuse): si vive a fatica e i sogni sono un lusso dei giorni di festa, o delle anime particolarmente sensibili, come quella di Jonah, dieci anni appena e già in guerra col mondo intero. In particolare, con i fratelli che lo trattano da femminuccia, perché sembra destinato a sfuggire al cliché del macho latino incarnato dal padre: forse perché è gay, o forse perché ha semplicemente una capacità che i suoi fratelli non possiedono, immaginare altri mondi e altre vite.
Tre bambini e una grande casa fra gli alberi e l’acqua, infestata di zanzare e impregnata di povertà. Una povertà a tratti dignitosa, fatta di lavori umili e passabile felicità domestica, a tratti invece sprofondata nella cupezza, fra pugni in faccia e depressione, fame nera e frigoriferi vuoti. Il tutto raccontato senza indulgenza ma con tanta empatia attraverso gli occhi di Jonah e i suoi disegni, la sua spericolata immaginazione. Sono proprio questi disegni animati dal tratto aggressivo e dai colori sgargianti a scandire un racconto di formazione intenso e struggente, pieno di dolore e di vita.
E anche di amore, nonostante tutto. Perché il film di Jeremiah Zagar, premiato al Sundance Festival, è il racconto poetico di un piccolo universo marginale e crudele dove l’amore non si stanca mai di circolare, ostinato, resiliente, anche se sembra non trovare mai un posto dove sentirsi veramente a casa. Un mondo di vite precarie, cuori spezzati e anime rassegnate, quello in cui si muove il piccolo Jonah. Un mondo dove il sogno più facile è quello di rimanere per sempre bambini: ma forse, dovendo comunque crescere, il sogno da realizzare davvero è semplicemente quello di andare via, puntare verso il cielo seguendo il volo degli uccelli. Insomma, imparare a volare.
Tratto da un romanzo autobiografico di Justin Torres, pubblicato nel 2011 (in Italia da Bompiani con il titolo Noi, gli animali), il film di Zagar si nutre di poesia e metafore, a volte fin troppo, ma convince fino in fondo grazie alla straordinaria verità dei tre piccoli interpreti (alla loro prima prova come attori), capaci di dare vita alla rabbia e alla disperazione, alla voglia di vivere, alla paura e all’amore. Nonostante tutto.
Quando eravamo fratelli di Jeremiah Zagar, con Evan Rosado, Isaiah Kristian, Josiah Gabriel, Raúl Castillo, Sheila Vand.