Gli orrori del Novecento, gli attentati mafiosi, le ruberie: non solo Isis dunque. E urge ricostruire la storia dell’arte anche con tutto ciò – da Klimt a Caravaggio – che è andato perso o distrutto
Spesso i destini dell’arte sono misura della contraddizione degli uomini. Dentro la storia delle opere d’arte si può leggere in filigrana quella dell’umanità. Anche se non siamo ancora immuni dagli ultimi rigurgiti romantici che tendono a farci pensare le opere d’arte come frutto di libertà e genio, iniziamo a comprendere sempre più quanto esse incarnino anche quanto di più vile, malato e canceroso caratterizza la nostra società o le società del passato.
Le piramidi sono state costruite grazie al sangue versato da milioni di schiavi che trascinavano quintali di pietra, i templi romani manco a parlarne, i ritratti del rinascimento venivano pagati salati e spesso non rispecchiavano in nulla la realtà del ritrattato, gli impressionisti ritraevano prostitute pagate due lire, e il triste refrain – ma quanto vero! – degli artisti al soldo dei galleristi intasa le orecchie di tutti da diversi decenni. Non tutto si può banalizzare in questo modo e, caso per caso, bisogna valutare, tra le altre cose, la dinamica del rapporto triangolare committente-artista-pubblico. Quel che è sicuramente vero, però, è che le opere d’arte, in quanto belle, sono spesso oggetto di un desiderio bramoso che ne suggella destini talvolta rocamboleschi, più spesso drammatici e sono terreno di scontro estetico, economico-sociale e politico. C’è chi osteggia un certo tipo d’arte perché incarna ideali estetici diversi rispetto ai propri, chi vuole aggiudicarsi un pezzo (o rubarlo) per dimostrare e il suo prestigio e chi vuole piegare l’arte del passato (inconsapevolmente) o (deliberatamente) l’arte del presente a fini politici. I musei stessi, che tendiamo a pensare come scatole immuni agli strali del tempo, subiscono mode, passioni personali, vicende politiche e amministrative, tanto da diventare – come ha meravigliosamente dimostrato lo storico dell’arte inglese Francis Haskell – un fenomenale termometro dei cambiamenti sociali in atto.
Ebbene, spesso l’arte viene addirittura distrutta: è cronaca recente e ne parliamo in questa pagina la distruzione di alcuni templi a Palmira, vicenda sulla quale abbiamo misurato la barbarie dell’Isis a fronte della sedicente “civiltà” nostrana. Eppure a pochi è venuto in mente di ricordare quanto noi stessi abbiamo distrutto di ciò che era più nostro. Non nel pleistocene, ma pochi decenni fa, a casa nostra. Solo alcuni esempi: l’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze, nel 1993, ha distrutto sette opere conservate dentro gli Uffizi e ne ha danneggiate decine di altre; nel 1969 la mafia ha rubato (ed è di pochi giorni fa una discutibilissima sostituzione con una copia, della serie “Non è successo niente”) la straordinaria Natività con i SS. Francesco e Lorenzo di Caravaggio nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo (foto). In guerra abbiamo perso una quantità innumerevole di opere: le bombe (alleate, peraltro) che piovevano sugli Eremitani a Padova polverizzavano gli affreschi di Andrea Mantegna (e non solo) in 80mila frammenti, Palma Bucarelli urlava, disperata, nei suoi diari «Dio li fulmini tutti questi aeroplani della malora, che razza di guerra inaudita e bestiale!» senza ovviamente dimenticare i falò dell’’arte degenerata’ nel Terzo Reich.
Il dato, molto semplice, è che la barbarie l’abbiamo avuta e l’abbiamo anche noi, in casa nostra. I nostri vicini di casa se ne sono fatti protagonisti. Non noi, magari. Allo stesso modo, però, tra quarant’anni, vicino a Palmira ci sarà chi potrà fregiarsi – a ragione – di non essere stato tra coloro che distruggevano i templi: ma come reagiremmo se si ergessero a tutori della civiltà di fronte alla nostra barbarie che ha distrutto, per dirne solo alcuni, il Cristo sul Monte degli Ulivi, la Cortigiana Fillide e il San Matteo e l’Angelo di Caravaggio, gli Spaccapietre di Courbet, innumerevoli Klimt, l’Educazione di Pan di Luca Signorelli, e tanto tanto tanto altro?
Un istituto americano, il Clark Photograph and Clippings Archive, contiene circa un milione (sì, avete capito bene) di fotografie di opere d’arte distrutte soltanto nella prima metà del XX secolo: alcune si possono trovare online qui. Sfogliare queste immagini può fare bene alla coscienza storico-politica, ma quel che è certo è che oggi ci è data una risorsa in più per conservare la memoria, almeno fotografica, di quanto è andato distrutto. Questo non solo induce una riflessione sulla perenne urgenza di documentare il nostro patrimonio culturale, ma anche sulla necessità di non dimenticare queste distruzioni del nostro tessuto storico-artistico. Dietro l’angolo è il rischio di ricostruire la storia dell’arte dimenticando queste opere distrutte e le avremo allora distrutte una volta di più.
Rimane, alfine, la consapevolezza – quanto amara! – che quello di Palmira, dell’Isis e contemporaneamente di chissà quanto altro ancora, è solo un tassello che si aggiunge alla storia eterna della distruzione delle opere d’arte. La storia è fatta anche di questo, e forse ci si può anche rassegnare al destino delle opere d’arte che, in quanto creazioni umane, seguono i destini dei loro creatori. Quel che viene meno, però, assistendo a come e perché le distruzioni avvengono, è quel principio strettamente positivista, di derivazione filologica, che tanto tormenta gli studenti del liceo classico: è il meglio di una tradizione a sopravvivere, ci dicevano. Oggi, dopo gli orrori del Novecento, forse possiamo dire con certezza che non è così.
Immagine di copertina: Cristo sul Monte degli Ulivi, Caravaggio, ca. 1604-1606