Dopo un best-seller basato sulle sue storie private e familiari, Delphine (Emmanuelle Seigner) viva una grave crisi creativa. Finché incontra Leila (Eva Green), subdola ghostwriter che si insinua prima nella sua casa e poi nella sua vita, costruendo con lei un’amicizia pericolosa. Un dramma degli equivoci dal plot non sempre lineare, frutto del tandem Polanski-Assayas, le cui poetiche divergono
Da una storia vera. Questo il titolo del romanzo di Delphine de Vigan che sta all’origine di Quello che non so di lei, il nuovo film di Roman Polanski. È un primo tratto di ambiguità legato al racconto, che è invece pura fiction e si sviluppa come fosse la storia autobiografica di una scrittrice, anche lei di nome Delphine, che, dopo avere assaporato il successo editoriale disvelando storie private e famigliari, ora sembra in crisi creativa. Il suo compagno, conduttore di trasmissioni tv a sfondo letterario, è negli Usa a intervistare gli scrittori veri, e lei, sola, comincia anche a ricevere segnali inquietanti di critica personale per quel che ha scritto. Poi incrocia una fan (L., in originale, quindi elle, lei: in italiano è diventato Leila, che non può restituire appieno l’idea), la quale un po’ alla volta si insinua prima nella sua casa e poi nella sua vita, in un rapporto di inaspettata amicizia che ha però un risvolto subdolo, in cui Delphine appare come vittima di una nuova scrittrice vampiro. Già, perché anche Leila è scrittrice, ma ghostwriter, scrive anonimamente autobiografie di personaggi famosi che non sarebbero in grado di farlo.
Un dramma degli equivoci elusivo, quindi, in cui le azioni non sono sempre immediatamente decodificabili. E sappiamo quanto Polanski sia abile in questi racconti che lasciano intravedere sfumature oscure e misteriose. Anche se al centro di tutto dovrebbe esserci il rapporto realtà-finzione, e infatti le due si confrontano creativamente proprio su questo, quando Delphine vorrebbe andare dall’autobiografico del primo romanzo verso la fiction. Mentre la storia procede ci si avventura sempre più nel territorio scandagliato magnificamente da Stephen King e Rob Reiner con Misery non deve morire. Qui però non vale l’esplicito, Polanski sembra essere stato ulteriormente affascinato dal cinema che è andato oltre, quindi irrompono sogni e momenti che sono apparentemente inspiegabili, e risultano piuttosto esercizi di stile.
Il ruolo di Delphine è affidato a Emmanuelle Seigner, da una trentina d’anni signora Polanski e molto spesso sua musa. Qui sciabatta nel suo appartamento con lo sguardo segnato dalle palpebre a mezz’asta. All’opposto sta Leila, interpretata da Eva Green, sempre elegantissima, truccatissima, capace di tenere tutto sotto controllo. Seppure il tema del mistero e dell’ambiguità appartengano a molti titoli del regista (è stato lui stesso a citare a questo proposito Repulsion, Rosemary’s Baby, La nona porta, L’uomo nell’ombra) la novità tematica sta questa volta nel fatto che le due protagoniste sono donne, e sono loro a confrontarsi, come non era mai accaduto prima nei film del regista polacco: il quale, per adattare il romanzo di de Vigan ha voluto chiamare Olivier Assayas, che aveva mostrato di saper gestire ottimamente questi rapporti al femminile in Sils Maria e Personal Shopper. Solo che la poetica di Assayas non appartiene a Polanski, e viceversa. Quindi tutto sembra essere piuttosto gratuito e mai davvero intrigante.
In fondo Roman ha già compiuto 84 anni. E allora affiora un pizzico di nostalgia verso i suoi personaggi (a memoria dal 1966) quando dialogavano così semplici, diretti, efficaci: “adesso ci siamo”, “dove?”, “nella merda sino a qui”. Erano i banditi malmessi Albie (Jack Mac Gowran), ferito, e Richard (Lionel Stander), che spingeva l’auto all’inizio del geniale Cul de sac. Ora tutto è molto più perverso, ma anche molto meno appassionante.
Quello che non so di lei, di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Damien Bonnard, Dominique Pinon, Noémie Lvovsky, Camille Chamoux, Mathilde Ripley, Brigitte Roüan, Josée Dayan